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Rapporto sulla scuola in Italia 2010 - copertina
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Rapporto sulla scuola in Italia 2010 - copertina

Descrizione


Quanto costa la scuola italiana oggi, allo Stato, agli enti locali, alle famiglie? E quanto ci costerà domani, quando andrà in porto la riforma federalista e l'istruzione sarà di competenza delle Regioni? Sarà un'occasione per razionalizzare la spesa, la scuola diverrà più efficiente e sarà migliore la qualità degli apprendimenti dei nostri ragazzi, o piuttosto correremo il rischio di aumentare quei divari profondi che già oggi fanno sembrare Nord e Sud paesi diversi? Domande a cui dare risposte con sguardo lungo, perché per essere al passo con i tempi l'Italia deve avere il coraggio di cambiare faccia alla scuola, senza nostalgie per il passato. È necessario portare, ad esempio, nelle aule scolastiche un uso più efficace delle nuove tecnologie, saper farle usare con obiettivi formativi; definire le politiche per una scuola più giusta, che nequilibri diseguaglianze di opportunità ancora troppo diffuse e aiuti chi vale a emergere, indipendentemente dalla propria origine sociale, così come vuole la nostra Costituzione; ripensare la professione docente per interpretare l'aspirazione degli insegnanti italiani a essere più preparati e responsabili. Sono questi i principali temi del Rapporto sulla scuola in Italia 2010 della Fondazione Giovanni Agnelli, che nella scia del primo -uscito l'anno scorso - propone a insegnanti, famiglie e decisori politici nuove ricerche, nuovi dati, nuove proposte.
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Dettagli

2010
4 marzo 2010
XX-215 p., ill. , Brossura
9788842092162

Voce della critica

Anche questo secondo Rapporto sulla scuola in Italia della Fondazione Agnelli (il primo è stato recensito nell'ottavo fascicolo dell'"Indice della scuola"; cfr. "L'Indice") raccoglie preziosi contributi alla conoscenza del nostro sistema scolastico. Il metodo di composizione del fascicolo è ancora quello felicemente sperimentato nel primo: alcuni studiosi che fanno capo alla stessa Fondazione Agnelli (Gianfranco De Simone, Andrea Gavosto, Marco Gioannini, Stefano Molina e Alessandro Monteverdi) presentano in sintesi chiare e compatte i risultati di ricerche condotte da diversi gruppi che possono essere indipendenti dalla Fondazione o messi al lavoro dalla stessa. Ne deriva un testo ben ordinato, arricchito da preziose finestre informative e da suggerimenti per ulteriori letture: un vero e proprio lavoro collettivo che ha mobilitato quasi ottanta persone.
A un bizzarro corsivo iniziale, in cui si disegna il caso fantastico di una scuola completamente computerizzata (forse è stato scritto con l'intento segreto di scoraggiare una volta per tutte simili fantasie), segue un primo capitolo sull'uso del computer a scuola e sul cosiddetto divario digitale (che è la traduzione blanda di digital divide, una formula con la quale da una quindicina di anni si indica il rischio di una frattura fra cultura informatizzata e analfabetismo informatico). Affascinati come tutti siamo dall'idea che le tecniche di comunicazione nascondano ciascuna una qualche sorta di pietra filosofale (si è detto perfino che il medium è il messaggio), si sta forse esagerando nella retorica della rete informatica. In verità, come un grande salto di civiltà è stato reso possibile da enciclopedie e vocabolari senza che alcuno ne scrivesse preventivamente l'apologia, così oggi dovremmo preoccuparci semplicemente di una buona costruzione della rete informativa computerizzata (innanzitutto ricchezza di dati su temi rilevanti) e di un suo buon uso. Del resto, le informazioni raccolte in questo capitolo del Rapporto 2010 invitano, probabilmente senza volerlo, a questa deflazione della retorica del computer: molte ricerche danno risultati non chiari o contraddittori o perfino dissuadenti quanto al darsi di una correlazione positiva fra livelli di apprendimento e uso didattico del computer. Forse, oggi su questi temi non si deve più ragionare mediante variabili astratte: né la presenza del computer in classe, né i tassi di consumo della rete sono indicatori significativi. Basterebbe forse limitarsi a semplicemente raccogliere con cura i casi di buona didattica computerizzata, e a diffonderne notizia.
Segue un ottimo capitolo sulla relazione fra equità scolastica (accesso alla scuola e processi di apprendimento) e stabilizzazione e crescita della nostra società. Sono qui raccolte molte informazioni sul divario Nord-Sud in Italia (nei punteggi Ocse uno studente del Nord ha 68 punti di vantaggio su uno studente del Sud, il 15 per cento in più del punteggio medio) e molti confronti con analoghe problematiche statunitensi. Si fa anche riferimento ai difficili compiti della scuola nel rapporto con bambini, ragazzi e giovani stranieri. Mettere insieme molte questioni sotto la rubrica "equità" ha il vantaggio di fornire un istruttivo quadro di insieme. Vorremmo soltanto suggerire agli studiosi della Fondazione Agnelli di trattare insieme, in un prossimo futuro, il tema dell'eguaglianza nei processi di apprendimento e il tema delle innegabili funzioni selettive della scuola: ciò al fine di evitare o di ridurre il rischio odierno, almeno in Italia, che si avverta una certa cacofonia fra la proclamazione di intenti egualitari in certe sedi e le invocazioni eccitate dell'eccellenza in altre sedi (talora sono gli stessi soggetti che si sono spostati da una sede all'altra).
Una fondamentale uguaglianza nella scuola di base, da una parte, e dall'altra la produzione di quel bene pubblico che è costituito da ceti dirigenti laboriosi, competenti e di buon cuore (ne è premessa una selezione a maglie strette e curricula rigorosi per i pochi migliori), ecco due obiettivi che possono, e forse devono, essere trattati contemporaneamente: altrimenti, continuando comunque le pressioni sistemiche a chiedere istruzione diffusa e al contempo quadri selezionati, meccanismi sociali spontanei e irriflessi non possono che produrre egualitarismo al ribasso e selezione grossolana (per la via di privilegi e di ambizioni troppo diffuse). Dovremmo tutti desiderare di uscire da una situazione in cui, restando inevasi gli ideali egualitari, le attuali funzioni selettive della scuola sono, non solo in Italia ma forse in Italia più che altrove, a maglie troppo larghe, tendendo a produrre l'ossimoro di una élite di massa (uno studente di liceo ottiene in Italia solo 61 punti in più di uno studente di istituti professionali, meno della distanza fra Nord e Sud!): élite di massa deve infatti da noi dirsi la popolazione degli iperpopolati licei classici e scientifici, la quale ultimamente è perfino in crescita, mentre, nonostante profluvi di buone intenzioni, restano formativamente carenti le scuole tecniche e professionali (i recenti orientamenti ministeriali bipartisan a estendere il nome "liceo" non sembrano demitizzare affatto, tutt'altro, l'antico alone di prestigio che accompagna questo nome).
Il terzo capitolo costituisce il compendio più chiaro e più esauriente che mi sia capitato di trovare a riguardo della spesa in pubblica istruzione del nostro paese. Informazioni di questo tipo dovrebbero essere molto più diffuse fra quanti operano nel mondo scuola. Fra i molti dati che potrebbero essere commentati, ricorderò l'utile confronto che viene fatto fra dati reali di spesa dopo la gelminiana (o tremontiana?) cura di cavallo e i dati che si avrebbero nel 2012 se tutte le regioni si adeguassero, come nell'ipotesi federalista, al costo standard delle regioni più efficienti: ebbene, la sorpresa è, come sottolinea Gavosto nell'introduzione, che "la razionalizzazione della spesa, prevista nel piano programmatico presentato dal ministro Gelmini nel 2008, sta già avvicinando la spesa storica alla nozione di costo standard. Nel 2012 la differenza fra i due scenari sarà meno di 20.000 insegnanti (una riduzione di 96.000 rispetto al 2008 nel caso del federalismo, di 78.000 nei provvedimenti Gelmini)". Non ci si dovrebbe rallegrare per simili sorprese: andare avanti per strappi nuoce a qualsiasi motore.
Il fascicolo, continuando la promessa di un osservatorio permanente sugli insegnanti, chiude con i risultati di una ricerca su 16.000 insegnanti neoassunti nel 2008-2009 (il 64 per cento del totale). I caratteri di questa "popolazione" non sembrano molto diversi da quelli campionari nella terza indagine dell'Istituto Iard su tutti gli insegnanti del nostro paese (Gli insegnanti italiani. Come cambia il modo di fare scuola, a cura di Alessandro Cavalli e Gianluca Argentin, pp. 427, € 28, il Mulino, Bolgona 2010). Se c'è somiglianza fra corpo insegnante totale e corpo dei neoassunti (ma di questi l'84 per cento ha già un'anzianità di precariato superiore a sei anni!), si può forse dire che la professione dell'insegnante non cambia di molto, e aggiungere (pensando alla febbrile fertilità dei novatori) che ciò non è necessariamente un male. Franco Rositi

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