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Le dittature si impongono con metodi che si ripetono ad ogni latitudine. L'Iraq di Saddam non fa eccezione. Leggendo questa 'rapsodia' si trovano manifestazioni obbligate, poesie censurate, arresti e torture. Sinan imposta il suo racconto sulle parole, sulle variazioni di senso e di interpretazione cui sono soggette. Scrivere e' un modo per conservare la memoria, per lasciare una traccia, per costruire una (illusoria?) via di fuga. La bellezza del rapporto con Arij e' l'ultimo appiglio nelle tenebre del regime, la fonte delle pagine piu' intime e riuscite.
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Rapsodia irachena è un libro sull'ambiguità. L'ambiguità di un testo arabo scritto senza punti diacritici, senza quei segni, cioè, che permettono di distinguere una lettera dall'altra per attribuire un significato sicuro alle parole a cui danno forma. L'ambiguità di un testo autobiografico scritto da un giovane iracheno detenuto nelle carceri di Saddam Hussein durante la guerra Iran-Iraq (1980-1988) e rinvenuto in seguito da uno dei carcerieri, per poi essere decifrato da un funzionario di regime. Come in una grottesca edizione critica, alcune parole sono seguite da una parentesi quadra che riporta una seconda possibilità di lettura. Inizia così una tragicomica altalena tra il modo di esprimersi del giovane detenuto, visceralmente ostile alla dittatura ba'thista, e l'esegesi organica al regime che, espressa in forma interrogativa e tra parentesi, prende un insopprimibile senso di ridicolo. E se non possiamo impedirci di sorridere scoprendo in parafrasi le esitazioni tra "il Loffio [il Leader?]", "i bastardi [i ba'thisti?]" o "la lezione di Iattura [Cultura?] nazionale", non è a un sorriso liberatorio che invita Rapsodia irachena. Nessuna limpida vittoria della verità attraverso l'ironia, nessuna sconfitta dell'ottusità di ogni censura. Sinan Antoon sembra trasformare in scrittura creativa l'analisi di Tzvetan Todorov sul dialogismo che pesa su chi vive in dittatura: la duplicità lacerante tra un discorso pubblico, di adesione ai principi propugnati dal potere, e un discorso privato, in cui aderire finalmente ai propri valori. Ma lo fa con toni che ricordano George Orwell, che è del resto espressamente citato. Perché, prima di essere un detenuto, costretto a subire torture e abusi sessuali da parte dei secondini, Furat era uno studente universitario, con una grande passione per la letteratura e l'intenzione di scrivere una tesi su 1984 di Orwell: un libro proibito nella Baghdad di Saddam Hussein. Di fronte all'impossibilità di procurarselo, il giovane sceglie di dedicarsi a Samuel Beckett e al Teatro dell'assurdo, altra amara metafora della condizione del suo paese costretto a un'eterna carnevalata di regime.
Furat si serve dell'ironia come di un'arma. Non rinuncia a mettere in ridicolo la pagliacciata della dittatura, non si piega a essere pagliaccio tra i pagliacci. Rifiuta il travestimento e questo lo tradisce. Nonostante gli avvertimenti di chi gli vuole bene, non riesce a essere prudente: sembra incarnare il radicalismo puro, ingenuo, incorruttibile di tutti i giovani di questo mondo, un'avversione per il totalitarismo che è umana prima che politica, istintiva più che riflettuta. È con lo stesso spirito libero che, in carcere, accetta il materiale per scrivere che gli offre un secondino. E scrivendo torna al mondo di fuori, al mondo di prima, fatto di lezioni universitarie e tentativi di evitare gli assembramenti forzati, di pomeriggi a seguire il calcio allo stadio e del tifo contro la squadra del figlio del rais, della storia d'amore con Arij e delle incessanti preghiere della nonna. Sono brandelli di vita e di ricordi intervallati da squarci di una narrazione che si coniuga al presente, e tocca il quotidiano più doloroso della reclusione. Non c'è linearità temporale in questa simulazione di autobiografia che si sviluppa come per escrescenze successive, ritmata da una frase ricorrente: "Mi sono svegliato e mi sono ritrovato qua(la)ggiù". E non c'è nemmeno verità autobiografica: Sinan Antoon incammina questa storia su un filo che si snoda tra sogno e realtà, tra realtà e incubo, e che inevitabilmente sfocia in una cesura, nella rottura di quel rapporto di complicità e fiducia, di quell'empatia che sfiora l'immedesimazione, tra chi narra le sue memorie e chi, come in confidenza, le riceve. Quanto dobbiamo a Furat, nelle pagine che ci sono pervenute, e quanto invece al funzionario di regime incaricato di decifrarle, o al secondino che fornisce carta e penna senza le quali non sarebbero mai state scritte? Chi è il custode del significato del testo, ammesso che un significato esista?
"Scrivere significa rischiare di essere fraintesi. Le parole che sopravvivono al loro autore vivono di vita propria. Si spostano, prendono nuove forme, generano nuovi significati. E mantengono sempre la loro intrinseca ambiguità". Così recita la citazione di Ibn Khaldun che Sinan Antoon propone in apertura. Certo, ogni forma di scrittura è di per sé un compromesso espressivo: la traduzione, mai compiuta e perfetta, di un pensiero. E in questo senso possiamo trovare un parallelo stimolante nel saggio-racconto Tu non parlerai la mia lingua (Mesogea, 2010) in cui l'intellettuale marocchino Abdelfattah Kilito mostra quanto sia fuorviante parlare in termini quasi sacrali di "lingua madre" o di "testo originale", e quanto invece lingua e letteratura siano un continuo flusso di traduzione.
Guardiamoci però dal rischio di letture universalizzanti, che sacrificano il tempo e il luogo di ogni opera in nome di una visione che, prima di comprenderli, si sente troppo spesso portata a trascenderli. Rapsodia irachena è un libro sull'Iraq. E lo è in senso artistico, sociale, politico. Pubblicato nel 2004, l'anno dopo la caduta di Saddam Hussein e la presunta (proclamata) fine dell'ultima guerra, Rapsodia irachena racconta una guerra del passato, una delle guerre che Sinan Antoon ha vissuto prima di trasferirsi negli Stati Uniti dopo quella del 1991. Degli Stati Uniti non parla. Parla della dittatura con l'ironia feroce propria di altri poeti e scrittori iracheni (Najem Wali, Muhsin al-Ramli, Dunya Mikhail). Descrive un mondo in cui vero e falso si rovesciano l'uno nell'altro, in cui la rivelazione dell'intimità più profonda somiglia al supremo travestimento. In cui non c'è pace per nessuno, né sommersi né salvati.
Elena Chiti
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