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recensione di Cantarella, G.M., L'Indice 1997, n. 5
Il 4 agosto 1578 il re del Portogallo, Sebastiano, sparì in Marocco in un disastro militare che aprì la strada alla successione spagnola sul trono portoghese. Da questo evento o (per la mancata constatazione della morte) non-evento muove la voluminosa ricerca di Bercé, che con mano sicura conduce il lettore lungo la storia dei pretendenti che via via spuntarono a rivendicare l'identità e il trono del perduto sovrano, quindi attraversa l'Europa fino alla Mosca di Boris Godunov e dei presunti principi Demetrio, per approdare poi in Francia alla vigilia del trionfo di Enrico IV, dove un ignoto Francesco si disse figlio di Carlo IX di Valois. Tre episodi principali (ma non mancano incursioni nella storia scozzese e nel mito di Luigi XVII), la medesima rivendicazione di identità. La medesima capacità di suscitare entusiasmi. Dunque un solo interrogativo: come poté accadere che perfetti sconosciuti riuscissero ad aver seguito e credenza? L'idea del principe che è perso al mondo e poi vi ritorna per sistemare le cose secondo un retto andamento corrisponde forse a qualche profondo sentire a proposito del sistema della regalità? Ne è, anzi, un elemento costitutivo? Bercé ne è convinto. Di più: è convinto che si tocchi qui un pilastro non soltanto della regalità ma del "potere"; tutto, dalle storie di re Artù alle lettere indirizzate al presidente della Repubblica francese, lo conferma nella convinzione che si debba constatare l'esistenza di un dato atemporale: "La saggezza dei popoli ha sempre lodato l'eroe che sa tornare alla primitiva semplicità"; "così come la storia, contemporanea ed eterna, tiene sempre in serbo astuzie e reviviscenze inattese, i miti dei principi dormienti appartengono ancora oggi, nonostante le apparenze, alle virtualità politiche".
Negli ultimi anni l'interesse per la regalità, per i re, i papi, gli imperatori, cioè per la storia del potere e per le condizioni della sua legittimità, si è evidentemente risvegliato. Sarebbe difficile non collegarlo con le sollecitazioni della contemporaneità. Il nostro secolo è ed è stato teatro di forme interessanti, drammatiche e anche terrificanti di potere e soprattutto di esercizio del potere con il consenso dei soggetti, e insieme (grazie alla scolarizzazione di massa e all'affinamento delle discipline) ha sperimentato una dilatazione mai vista prima delle "potenzialità" di conoscenza critica; la formazione e l'istituzione del consenso sono oggetto di studio, e la curiosità scientifica può spingersi molto indietro. Ameno che non ci sia qualcosa di più profondo. "L'epoca era avida di fenomeni anormali", scrive Bercé: chi potrebbe negare che il mondo in cui viviamo non faccia, a suo modo, altrettanto? Come escludere che l'attenzione alla regalità sia, oggi come allora, uno dei sintomi di un disagio nei confronti del mondo? Quel disagio permanente (il disagio dei popoli sempre delusi dai re e dai governi presenti e visibili; l'aspettativa continua di nuovi principi improvvisi che offrano una nuova "chance", e sempre conducono a nuove delusioni) che risulta dalla strada percorsa dall'autore con acribia attraverso la narrazione di vicende interessanti e, per i non specialisti, spesso sorprendenti...Tuttavia si pone qualche problema di metodo, proprio perché il tema che è oggetto di questa indagine, se è davvero un elemento costitutivo (antropologico?), dunque robusto, è paradossalmente molto delicato e fragile. E il problema investe le fonti. Le fonti sono tutto per lo storico. Ma non sono state scritte per lui. Al più sono state scritte per i contemporanei dell'autore che raccontava la storia dei tempi suoi; al più qualche testimone potrebbe aver scritto per sé, per riempire un ozio o per darsi ragione dei tempi che aveva attraversato. In genere sono racconti scritti, secondo gli insegnamenti dei classici, con l'intenzione di mettere a frutto le esperienze del passato per indicare al futuro una via. Comunque non le hanno scritte i popoli. I popoli, nel racconto storico, hanno solitamente la voce che viene attribuita loro dalle fonti. I popoli sono oggetto della storia di chi detiene i sistemi di comunicazione. I miti dei principi risorgenti appartengono all'apparato dei sistemi di comunicazione: ne è responsabile chi li evoca e li brandisce, e riesce a suscitare il consenso intorno alla mitica figura che ha evocato. Ma il consenso giunge perché "l'animo popolare è avido di trascendenza" o perché "si ottiene" che sia "avido di trascendenza"? In che misura si possono considerare "oggettive" le rappresentazioni (di entusiasmo, ad esempio) che ci vengono date e che siamo chiamati a sottoporre a trattamento storiografico, cioè critico? E come considerare le strutture e le ornamentazioni della favolistica cui i principi risorgenti indubbiamente appartengono? La trascendenza è un presupposto dei sistemi di regalità (di potere) o ne è un risultato? O ci sono intersezioni fra questi due capi? e come? Il problema è aperto. Il momento di una messa a punto degli strumenti per l'interpretazione della storia del potere si ripresenta periodicamente: Bercé ha, a tacer d'altro, il gran merito di avere intrapreso la verifica. La sua stimolante fatica suggerisce anche che si tratta di una questione su cui avviare una discussione serrata e "scientifica", tra storici.
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