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"Io l'ho già visto, quello di cui parli. Una volta ho anche incrociato il suo sguardo vuoto, che tiene quasi sempre fisso sull'alto mare come se attendesse qualche messaggio."
Questo romanzo è l'opera prima di Robbe-Grillet che sappiamo essere già terminato nel 1949, anche se la sua pubblicazione avverrà solo nel 1978.
Perché tanta attesa? Probabilmente perché la forma narrativa di quest'autore, caposcuola del cosiddetto nouveau roman o école du regard, appare in quest'opera in contraddizione con la produzione successiva.
Un regicidio si svolge attraverso due vicende parallele e due diversi registri stilistici. Il primo è dominato da un "io invadente" che descrive la natura selvaggia e talvolta ossessiva che lo circonda e in cui vive, un Eden vagamente onirico (non infrequenti sono infatti i momenti in cui il sonno incombe sul narratore), situazione esistenziale, felicità incorrotta da cui però è giocoforza allontanarsi. È il superamento dell'adolescenza, di cui però resterà comunque traccia anche nella banalità dell'età matura: ognuno conserva in sé memoria di un Eden perduto, di una pienezza di sensazioni e di immagini sfocate che non sanno incidere sulla realtà ma emergono a tratti, come brevi sussulti subito spenti. E la vera e propria "orgia di visività" delle descrizioni dell'isola perduta, rappresenta quello che Renato Barilli definisce un "laboratorio didattico". Se infatti l'io narrante non è (come non è) di tipo autobiografico, ma un vero e proprio personaggio letterario, viene a significare in modo emblematico la "necessità dell'andarsene", dell'abbandono della situazione ingenua e pura dell'adolescenza per una compromissione che inevitabilmente ci vedrà perdenti.
Il secondo registro narrativo del romanzo è quello che presenta il protagonista, Boris, attraverso l'uso della terza persona. In questa narrazione parallela più evidente è la frattura soggetto-oggetto propria del Robbe-Grillet dei grandi romanzi successivi. Boris è un personaggio nevrotico, che, perso il suo personale Eden, riesce ad essere abulico e ribelle, incapace di dare senso al suo esistere se non attraverso un atto, un gesto assolutamente immotivato e gratuito. Atto intellettuale quindi e forse la stessa origine della costruzione del piano regicida ha origini al di fuori dell'ordine naturale: Boris si imbatte per caso in una lapide su cui è scritto "Qui giace Red", ma le parole si confondono e gli appaiono in anagramma "Regicidio". Origine verbale quindi, ordine artificiale su cui però il protagonista fonda l'obiettivo, il senso della propria vita.
Se è lo sguardo dell'io del primo registro narrativo che conduce il lettore nel suo Eden, con tutta la soggettività e la capacità di travisamento dell'occhio adolescente, ed è invece lo sguardo di Boris che in modo ossessivo descrive nei minimi particolari ciò che lo circonda, inventariando con oggettività il reale, senza cercarne interpretazione o definizione, le due parti del romanzo appaiono irriducibilmente parallele e impenetrabili. Voluta, infatti, è la scelta dell'autore di non creare mai elementi comuni, o di sfociare in una conclusione che, in modo liberatorio, facesse "tornare i conti" al lettore, fondendo le due storie. La vita è priva di senso, ma soprattutto non è decifrabile, unica possibilità che ci resta è entrare in quello che Italo Calvino definisce, riferendosi a Robbe-Grillet, "il mare dell'oggettività" in cui essere cosa tra le cose, oggetto da descrivere.
Il tempo del romanzo, fedelmente ai dettami di tutto il romanzo del Novecento, non è lineare: è il tempo della vita coscienziale, il presente non potrà mai essere in noi davvero scisso da residui del passato o da ipotesi sul futuro.
E così questo romanzo, nell'ambiguità di ogni opera prima, nella scelta di campo non ancora definitivamente compiuta dal suo autore, è ricco e pregno di tutti i numerosi stimoli che la narrativa del primo Novecento ha prodotto e su cui procederanno, scegliendo strade diverse, i grandi narratori contemporanei.
A cura di Wuz.it
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