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Un libro affascinante
avevo letto 'il coraggio del pettirosso": bello. ho voluto leggere anche questo: uno dei piu brutti libri mai scritti, lunghissimo, prolisso e inutile. non potevo lasciare passare il voto di 5/5, mi sento in dovere di bilanciare
Bellissimo affresco di luoghi, personaggi e culture raccontato attaverso le paure, i dubbi, le debolezze e le speranze dei personaggi.
Recensioni
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recensione di Bardi, M., L'Indice 1998, n.10
Quasi dieci anni per un percorso esemplare: del primo breve romanzo del 1989 (e ripubblicato da Feltrinelli nel 1996), "màuri màuri" ("un'opera leggerissima aerea e gaia", secondo la definizione di Franco Fortini), Maggiani ha conservato la capacità di evocare e trasfigurare luoghi e persone della propria memoria: tuttavia, come già nel "Coraggio del pettirosso" (Feltrinelli, 1995) i dati autobiografici e storici sono destinati a perdere i contorni della riconoscibilità nella tensione verso una dimensione epica e corale. Fin dalle prime pagine il lettore è avvertito della difficoltà e dell'ambizione dell'intrapresa.
E ne avrà una conferma alla fine del volume, quando, congedando la sua storia con una lunga serie di ringraziamenti, l'autore troverà il modo di comunicare la sua lunga fatica di quattro anni: "Ho preso i primi appunti e buttato giù un piano di ricerche nell'estate del '94; ho passato l'inverno dell'anno successivo nel porto e la primavera dell'anno dopo nella città di Genova, osservando e ascoltando (...) Ho pure scaldato le sedie di numerose biblioteche". Anche questo breve epilogo (secco, denso di dati tecnici precisi) segna la distanza da quel primo romanzo trasognato e ruvido che raccontava la storia di un'infanzia degli anni sessanta e cominciava con un ben più incerto messaggio al lettore: "Per l'amore della bislunga ho tagliato dieci giovani alberi pioppi e glabri. Di tanti che erano ne ho fatto cinque cento fogli di carta bianca e io su quelli ho scritto giorni e mesi per farne una storia. Ora che voi la leggete, sapete se vale o non vale quei pioppi padani e il tempo".
Un salto, dunque, nel segno di quella felice formula già sperimentata con il precedente e celebratissimo romanzo: una trama classica, che si sarebbe tentati di iscrivere nel genere della saga familiare, e un linguaggio impeccabile, che corre molti rischi di smarrirsi e impacciarsi (mescolato com'è di dialetto, citazioni dotte, digressioni, e persino una lingua inventata) ma sempre viene salvato dal miracolo della misura e dell'eleganza. Questa volta l'ambiente non è quello apuano caro alla memoria dello scrittore, ma quello, avventuroso e promiscuo, della Genova dei primi del secolo: un universo di miseria e fatica che viene percorso da una stirpe di personaggi belli e nobili che passano immuni attraverso lo spettacolo - corrotto e desolato - del mondo. A partire dai capostipiti Alberico e Camilla, emigrati dalla Sardegna, fino alla coppia del bel "carbunè" Paride e di Sciascia, la cucitrice che confeziona bustine di zafferano adulterato e poi si rivela un'abile restauratrice di quadri, la cifra di questi personaggi puri è il silenzio, che si contrappone alla chiacchiera degli altri, per esempio a quella - sapiente e insidiosa - della prostituta Combattuta o a quella - interessata e volgare - del rigattiere Giggi 'o Trafegun, che la sera si trasforma in capo-claque al Carlo Felice.
Silenzio e nobiltà d'animo non sono tuttavia un sufficiente riparo dalla storia: quando Paride, diventato partigiano, muore, il figlio Giacomo sceglie di partire come missionario per una sperduta isola del Pacifico. Questo figlio di Sciascia e Paride è un "sacerdote ateo" che viene sospinto dalla storia stessa verso un nuovo Eden che lo accoglie a suo modo e ne fraintende lo spirito.
Del resto lo stesso Giacomo non giunge mai a capo della sua scelta e di sé, confuso dagli stravaganti culti polinesiani e costretto a sposare la figlia del re di Moku Iti. Anche a lui, che pure aveva scelto l'astensione, non è concesso sottrarsi al destino che lo bracca e lo riconduce alle braccia della madre, attraverso un movimento circolare siglato da un'immagine metaforica da non svelare ai futuri lettori. Anche perché, a questo punto, con una soluzione surreale fra l'apocalisse e il mito, si incrina e si spezza il fastoso e smagliante meccanismo del racconto: dopo tanti fallimenti e disastri restano ancora, dentro, la voglia di ascoltare e capire, oltre all'affezione a personaggi così peculiari e veri. Chiuso il libro, un dubbio resta: quello che per Maggiani l'unico riscatto possibile sia davvero il vagheggiamento - pagano e mistico insieme - della sposa bambina, della regina disadorna che nel porto sta lì, "in un cantuccio tra una manica a vento e un cassone", senza che nessuno la noti e la riconosca.
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