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Scritto con stile evocativo e trasognato, in bilico tra visione metafisica e cruda realtà, "Il regno dei fossili" è il romanzo della maturità di Davide Orecchio.
«Le pagine in cui Andreotti è costretto ad ascoltare per l’eternità i giudizi di Moro su di lui, tratti dalle sue lettere e dal suo memoriale, sono tra le più belle mai scritte da Orecchio» – La Lettura
I fossili erediteranno la Terra. Sono le scorie del passato, i resti di una grandezza svanita, le ceneri dell'esistenza. Sono quelli che Davide Orecchio descrive, conducendo il lettore in un intreccio di realtà e finzione, in cui è impossibile distinguere tra la storia di Andreotti, De Gasperi e il delitto Moro e la metastoria, la trama, la mimesi. Sullo sfondo dell'Italia tra anni Settanta e presente, si muove la relazione tra l'orfano Simone e Albinia, "la bambina che vola", nata da genitori scomparsi e rinata in un incidente stradale: è un'amicizia, è un amore, è una dipendenza reciproca.
Dopo il pluripremiato Mio padre la rivoluzione (2017, minimumfax), Davide Orecchio torna sugli scaffali delle librerie con la sua nuova opera Il regno dei fossili. Questo lavoro si presenta come un romanzo storico (l’Italia della DC e di Giulio Andreotti) continuamente mescolato da finzioni narrative che coinvolgono sia la verità storica – costituita dai diari scritti dall’Andreotti personaggio – sia la categoria di genere del romanzo, che si dimostra molto più sperimentale, complessa e difficile da cogliere di quello che viene scritto nella quarta di copertina. Ma procediamo con ordine.
La linea storica in cui è ambientato il romanzo si dipana dal 1947 fino ai primi anni del 2013. Per tutta la seconda metà del XX secolo italiano, la scena politica è dominata da un solo partito, la Democrazia Cristiana, il quale si incarna nella figura schiacciante, oscura e a tratti mitizzata di Giulio Andreotti. Sotto la sua ombra, un’Italia intera languisce in un immobile conservatorismo asfissiante. Gli altri protagonisti del romanzo, gli agenti narrativi veri e propri, sono Albina e Simone, due giovani ragazzi che condividono una relazione e che inseguono i propri sogni accademici tra Roma, Berlino e Praga, ognuno con le proprie difficoltà, i dilemmi esistenziali e la sensazione di impotenza di fronte a una situazione storica e sociale austera e intoccabile.
Il significato del titolo, quindi, è presto colto: non solo dall’ambientazione complessiva del romanzo, ma soprattutto dal capitolo d’esordio, che è un inno alla morte, una constatazione che la morte esiste ed è il destino di tutti da cui non ci si può sottrarre. Morte e vita si sovrappongono a favore della prima, perché «la vita è il tempo dei morti», il regno dei fossili, di rimasugli di ere passate che non si staccano dalla propria roccia e, anzi, rimangono ben in vista, cristallizzate, più come monito e divieto a passare oltre che come testimonianza storica e virtuosa. Giulio Andreotti: il più grande fossile della nostra storia.
La situazione, però, comincia a complicarsi nel momento in cui si tenta di andare oltre questa prima analisi de Il regno dei fossili. Questo nuovo romanzo di Orecchio risulta molto, molto difficile da recepire oltre un certo livello. Tralasciando il fatto, già accennato, che esiste una discrepanza davvero molto forte tra come il romanzo viene presentato al lettore e ciò che effettivamente è (scelte di comunicazione di mercato che purtoppo spesso avvengono e che, personalmente, mi seccano molto), la questione sta proprio nel capire cosa è – o comunque cosa doveva essere nei piani dell’autore – questo romanzo.
L’impressione è che ci sia una forte volontà, dal punto di vista di Orecchio, di accontentarsi di un grosso esercizio di stile; o, almeno, che gli aspetti più autoreferenziali e impliciti de Il regno dei fossili abbiano inglobato quelli più aperti e accessibili dall’esterno (che, una volta che si impara ad assecondare il “gioco” narrativo, possono comunque risultare davvero interessanti). Che questo, in linea di massima, costituisca una volontà metaletteraria di fare del proprio romanzo una roccia asettica ed ermetica – un fossile – non è da escludere, anche se non credo basti una simile suggestione per giustificare la confusione e l’insoddisfazione che questo romanzo può lasciare.
Lo stile di Orecchio lo conosciamo bene: barocco, sperimentale, che forza le categorie semantiche e le sfumature dei significati che impiega. Ne Il romanzo dei fossili, la lingua si fa ancora più artefatta ed evocativa, favorendo l’insorgere di immagini che si sostituiscono l’una all’altra; il discorso si divide in paragrafi massicciamente divisi e indipendenti tra di loro, che molte volte danno l’effetto di essere contenitori in cui questa narrazione molto filastrocchesca appare essere davvero stanca (e stancante). Un elemento che può risultare molto interessante, invece, è la co-azione di diversi fuochi narrativi, diverse voci che si realizzano sulla pagina in modo distinto e singolare, caratterizzate anche sul piano formale: la voce-diario, il discorso indiretto libero, il monologo, la psicotestimonianza storica.
In conclusione, Il regno dei fossili è un romanzo massimamente complesso e oscuro, che però dà l’impressione o di essere sfuggito al controllo del proprio autore, o che proprio questa volontà di controllo (e incontro verso chi recepisce la scrittura) non ci sia mai stata. Un vero peccato, in questo senso, scomodare elementi davvero giganti e stuzzicanti come Giulio Andreotti e l’Italia della DC.
di Michele Maestroni
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