Accostandosi a Religione aperta, il lettore, ignaro della storia del libro (uscito nel 1955 e qui riproposto nell'edizione rivista del 1964), potrebbe considerarlo uno dei tanti segni odierni del ritorno della religione. Ma Religione aperta non è un vademecum personale per la ricerca della felicità individuale e non offre alcuna ricetta allusiva, metaforica, letteraria per il buon uso della religione.
Per capire il messaggio dirompente di Capitini, bisogna collocare la sua sfida nel panorama etico-politico dell'Italia degli anni cinquanta e considerare la proposta della "religione aperta" come il cuore di una visione filosofica e politica. Dal punto di vista storico, il libro è stato un sasso gettato nelle acque stagnanti di un'Italia segnata dalla contrapposizione fra le tre grandi fedi: la fede dei laici, quella dei cattolici, quella dei comunisti. In quel contesto l'idea di una religione, che oggi si direbbe inclusiva e non esclusiva e che, come diceva allora Capitini, unisce ma non divide, è stata e rimane un richiamo ad aprire la fede, non chiudendosi nel recinto delle proprie convinzioni.
Un richiamo allora e per molti versi ancora oggi non ascoltato, né compreso. Se da parte comunista Capitini è stato considerato un compagno di strada, se da parte cattolica la reazione fu quella di mettere Religione aperta all'indice, solo pochi laici (Norberto Bobbio, Danilo Dolci) si confrontarono con lui, trascurandone però la centralità dell'elemento religioso. Un errore: Capitini non è un politico-religioso ma un religioso-politico. La religione aperta, che non è una religione del Libro, si fonda su una filosofia (elaborata da Capitini), la teoria della compresenza, e si prolunga in una politica (che Capitini eredita da Gandhi), la nonviolenza, a cui è dedicato il capitolo centrale del libro. In breve, la compresenza è il fondamento della religione aperta, la nonviolenza ne è lo svolgimento pratico. Ma vale la pena riferire questa connessione tra teoria e prassi con le parole di Capitini. Nell'apertura religiosa le persone "si aggiungono via via e aumentano di numero, senza cancellare le altre; così come ad una bella musica succede un'altra e la seconda non annulla la prima". Muovendosi nell'orizzonte della compresenza che collega i morti e i viventi, i sani e i malati, i buoni e i cattivi, le persone e le cose, la religione è "iniziativa assoluta", "apertura appassionata a una realtà liberata".
Fondamentalmente la religione è il rifiuto della "realtà dei fatti", dove il pesce più grande mangia il pesce più piccolo; la religione è "servizio dell'impossibile, rifiutando di accettare i modi attuali di realizzarsi della vita e del mondo come se fossero assoluti e gli unici possibili". Un'utopia? Una predica? Né l'una né l'altra: una profezia, se si vuole, lo si è detto spesso, un'utopia concreta. Il metodo di Gandhi permette di far vivere qui e ora, a partire da se stessi, i modi religiosi. Ebbene, passando dalla teoria alla prassi, dal pensiero all'azione (Mazzini), richiamandosi a Francesco d'Assisi, trasportando Gandhi dall'Oriente in Occidente, agire religiosamente vuol dire agire nonviolentemente, significa considerare l'altro "come possibilità infinita".
Come osserva Martini, la preoccupazione maggiore di Capitini è "quale sia il 'centro': il centro della realtà non è la produzione del benessere e dell'ordine sociale, ma l'affermazione del valore spirituale dato dalla persona, che è il soggetto di una 'socialità infinita libera'". L'apertura del "centro religioso" va oltre la tolleranza perché non si arresta al precetto "Non fare agli altri ciò che non vogliamo che gli altri facciano a noi"; va oltre la fede perché non è limitata al cerchio dei credenti; va oltre la mitezza ripresa e riproposta da Bobbio. Si può dire che, mentre la mitezza è una virtù negativa (riconosce l'altro così com'è), l'apertura è una virtù attiva: "è gioia per la presenza degli altri", "attenzione appassionata", "fiducia", "offerta del proprio contributo". Il contributo religioso non viene dall'alto, non si esprime in "una lingua che non è capita dal popolo", non si fonda sulla distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male, non deriva dall'osservanza di dogmi o dalla credenza in cose discutibili o leggende, non si manifesta nel recinto di una parrocchia totalitaria o di una chiesa.
In altre parole, la religione aperta non ha bisogno di essere costituita in un'istituzione, "usa con tutti e in tutte le occasioni la lingua comune, da tutti capita", si richiama all'osservazione dell'esperienza e alla voce della ragione e della coscienza, è "libera aggiunta" e rispetto delle opinioni di tutti, "non si organizza in parrocchie totalitarie ma in centri di fede". L'atteggiamento nonviolento è ben espresso da un detto indiano tanto amato da Capitini: "L'albero non rifiuta riparo neppure all'uomo che viene per tagliarlo".
Pietro Polito
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