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Nel 2006 Ludovic Debeurme ci ha raccontato la storia di Lucille (Lucille, Coconino Press, 2008), una ragazza introversa, ferita dalla fuga improvvisa del padre e soffocata dalla presenza di una madre troppo invadente, che scivola lentamente nelle trame dell'anoressia. Nel contempo ci ha presentato Arthur, un ragazzo solitario e violento, profondamente segnato dal suicidio del padre e in fuga dai fantasmi psicogenealogici. Debeurme ci ha rivelato come l'incontro tra Lucille e Arthur fosse destinato a cambiare le loro vite e come questi ragazzi persi si sono ritrovati adulti, pieni di amore, gioia e speranza. Ma alla fine, purtroppo, Debeurme ci ha detto come il dramma è tornato a condannare le loro esistenza attraverso il corpo di Lucille e l'ira di Arthur. E poi
niente. Dal 2006, Debeurme non ci ha più raccontato niente, lasciandoci il sapore di un amaro crepuscolo dei suoi protagonisti. A cinque anni di distanza esce ora Renée, il sequel tanto atteso.
Lucille, salvata dall'anoressia, è tornata a casa dalla madre. La sofferenza per la mancanza della figura paterna si replica nell'assenza di Arthur, costretto tra le mura di una prigione. Le loro storie si intessono con quella di Reneé, una ragazza tormentata dai dolori di un'infanzia violata che si condanna alla lacerante relazione con un uomo sposato che non potrà mai avere al suo fianco. Il linguaggio è ora crudo, ora poetico. Le parole sono scelte con assoluta precisione, soprattutto quando sono chiamate a dare voce ai turbamenti dell'inconscio. Temi forti, dunque, ma trattati con tanta discrezione e scrupolo. Lungi dal cadere nel patetismo, Debeurme si concentra sull'intimità dei suoi personaggi, rubricando dubbi, paure, rabbie, ma anche speranze, forza e calore. L'autore si serve di quasi cinquecento pagine per dare spazio e tempo alle emozioni, così che possano conquistarsi la dignità del racconto. I disegni non vengono neppure incasellati e soffocati in griglie. A volte, una o due figure occupano una piccola porzione di una sola pagina lasciando ampi spazi bianchi. Questo espediente concede aria per far respirare immagini di intensa complessità emotiva.
Certamente, rispetto al precedente lavoro, in Renée i disegni si fanno più allegorici e ricchi di dettagli significanti. Le sequenze oniriche sono più evidenti, quasi a prendersi lo spazio del reale, anzi, intrecciandosi a esso. Debeurme allestisce un bestiario di volti congelati in smorfie e di corpi deformi che riflettono i turbamenti interiori, quasi una tassonomia di neoplasie di alterazioni psichiche. Esplora le nostre rughe e le nostre pieghe per indagare come si manifestano esteriormente i nostri tabù, le nostre nevrosi, il nostro rapporto con la morte e con gli altri. Per certi versi ricorda le grottesche bizzarrie dei quadri di Hieronymus Bosch o l'assurdità del reale di Roland Topor, ma non c'è mai giudizio o ironia, solo una fredda e chirurgica rappresentazione dei destini. Il percorso, come detto, è impegnativo e qualche volta provoca repulsione. Non vi è in Debeurme alcun desiderio di piacere, ma di esprimere il proprio pensiero e di generare domande. Con una nota positiva, infine, che non è così scontata: alla fine c'è speranza.
Emiliano Fasano
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