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recensione di Viroli, M., L'Indice 1995, n. 4
"Resistenza e postfascismo" è un saggio che intende proporre una nuova immagine della Resistenza in cui gli italiani possano riconoscersi; e, in secondo luogo, vuole rispondere a due quesiti di carattere normativo: se sia vero o meno che per essere democratici si debba essere antifascisti, e se il riferimento alla Resistenza sia ancora "rilevante e significativo" per 1a nostra democrazia. È un'opera di critica storica ispirata dalla finalità politico-ideale di fare della Resistenza l'"evento fondamentale della democrazia italiana". Due anni fa Gian Enrico Rusconi aveva pubblicato un saggio in qualche modo propedeutico a questa ricerca: "Se cessiamo d'essere una nazione", sempre del Mulino.
Una ''democrazia vitale", spiega l'autore in apertura del volume, mantiene viva la memoria della propria origine, perché solo così possono formarsi e consolidarsi nel tempo quella lealtà politica e il solidarismo civico "che danno sostanza all'identità politica democratica". Anche se la memoria dell'evento fondativo è necessariamente controversa e dolorosa, l'importante è che essa ispiri nei cittadini "un sentimento di reciproca appartenenza". La democrazia italiana, in altre parole, manca di lealtà politica e di solidarismo civico, perché non dispone di una narrazione della propria origine che gli italiani sentano come propria. Occorre dunque por mano a un nuovo resoconto storico che sappia comprendere sia "la pluralità delle forme e dei motivi degli antifascismi", sia la memoria della parte storicamente nemica, una volta che questa dichiari di accettare il terreno della libertà.
La nuova "matura memoria collettiva" da mettere al posto della vecchia dovrebbe essere "critica e solidale". Nel senso che dovrebbe includere aspetti della Resistenza travisati o taciuti dalla retorica resistenziale. Dovrebbe, ad esempio, lasciare da parte miti sterili come quello della Resistenza come "rivoluzione interrotta" o "tradita", ripudiare palesi falsi storici quali l'idea di una Resistenza "pilotata o sequestrata dai comunisti", riconoscere il ruolo degli atteggiamenti attendisti, discutere seriamente di questioni spinose come l'uccisione di Giovanni Gentile o il terrorismo partigiano. E dovrebbe soprattutto presentare la Resistenza come convergenza di uomini e partiti con idee profondamente diverse e persino antagonistiche sulla democrazia che "apprendono e praticano di fatto insieme una democrazia senza aggettivi".
La nuova immagine che potrebbe dare rinnovata linfa civile alla democrazia italiana deve dunque porre l'accento sulla dimensione nazionale e patriottica della Resistenza e interpretare il "senso di identità nazionale" dei resistenti come un "patriottismo Costituzionale". Un patriottismo costituzionale, chiarisce l'autore, da intendersi non come "un surrogato e un succedaneo" dell'identificazione nazionale, bensì quale "inveramento di essa". Reinterpretata come un'esperienza in primo luogo (anche se non esclusivamente) di patriottismo costituzionale, la Resistenza può essere legittimamente presentata come l'evento che fonde spontaneamente "nazione e Costituzione", e dà sostanza storica e culturale alla democrazia italiana. Sottratta al suo uso retorico, l'espressione "Costituzione nata dalla Resistenza" può e deve tornare in auge come sinonimo di "patriottismo costituzionale".
Una volta ridefinita in questi termini l'immagine della Resistenza, Rusconi può rispondere affermativamente ai due quesiti posti all'inizio del saggio: l'antifascismo, emancipato dall'ipoteca comunista e reinterpretato come liberalismo militante non può e non deve essere "storicizzato" come vuole Fini, ma rimane il fondamento storico ideale della democrazia italiana, di cui la Resistenza, per quanto minoritaria e fragile, fu il gesto "che diede il senso di una dignità ritrovata a una nazione umiliata". Per questo, cancellare la Resistenza dalla memoria comune vorrebbe dire "fare violenza non solo alla storia ma anche alla democrazia nel nostro paese".
Saranno gli storici a giudicare se la ricostruzione della Resistenza proposta da Rusconi è convincente. Per quanto riguarda le conclusioni più propriamente teoriche ricavate dall'analisi storica, mi limito a osservare che mentre è del tutto condivisibile interpretare la Resistenza come esperienza di riscatto nazionale e di patriottismo costituzionale, mi sembra discutibile vedere in essa la "fusione spontanea di nazione e Costituzione". Si dovrebbe piuttosto parlare, per semplificare, di nazione contro nazione, di scontro fra due modi opposti di intendere l'essere italiani. Carlo Rosselli, per fare un esempio, parlava della rivoluzione antifascista come di un "dovere patriottico", ma scriveva anche che "possiamo vantarci di essere i traditori coscienti della patria fascista; perché ci sentiamo i fedeli di un'altra patria".
La nazione, scrive Rusconi, è "l'ambiente storico-culturale entro cui concretamente i suoi membri interagiscono e si riconoscono cittadini e maturano l'acquisizione di norme universalistiche che trovano espressione nella Costituzione democratica".
Ma entro quell'ambiente storico-culturale maturò anche l'idea della nazione fascista che trovò espressione nel regime totalitario. Il fascismo è figlio della nazione italiana quanto lo sono l'antifascismo militante e l'attendismo. È vero che la Resistenza ha riscattato (in parte) la nazione, ma quel riscatto fu anche un riscatto contro la nazione.
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