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Nel 2008, sulla soglia dei cent'anni, con Fejtö è scomparso un autentico "passeggero del secolo". Tipica del "passeggero" è una certa passività e incoscienza, anche rispetto ai marosi della storia. Per come sono narrati, questi Ricordi parrebbero al lettore frettoloso una conferma in tal senso. Induce in errore l'understatement di una personalità il cui stile non contemplava l'ostentazione. Siamo invece di fronte a un protagonista della storia politica e culturale, prima dell'Ungheria, suo paese d'origine, poi della Francia, sua seconda patria dal 1938, in fuga da quell'incombente minaccia nazista che avrebbe poi falcidiato la sua famiglia tra i campi di concentramento di Auschwitz e Buchenwald. Fejtö è infatti qualcosa di più di un "testimone", perché in prima linea si è spesso ritrovato per scelta propria. A muoverlo è stato un ideale illuministico e socialista umanitario maturato dopo una breve esperienza giovanile di militanza comunista che lo aveva ben presto convinto che l'ideologia marxista era "una perversione della teologia cristiana, un fenomeno irrazionale che riprendeva la logica del credo quia absurdum" a dispetto del suo propagandarsi quale "apice della ragione" occidentale. L'onestà intellettuale è il maggior pregio di queste pagine, che vanno oltre la testimonianza autobiografica, diventando documento utile a una storia del clima culturale e sociale dell'Europa in preda al totalitarismo. Il libro è poi una miniera di informazioni, ora maliziose ora commoventi, su un numero sterminato di intellettuali europei del Novecento. Un territorio vergine di autori mai tradotti in Italia.
Danilo Breschi
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