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recensione di Cases, C., L'Indice 1988, n.10
Difficile parlare di un libro di cui c'è già una famosa recensione di Giorgio Pasquali, veramente esemplare sia per l'esposizione sia per l'inquadramento, qui riprodotta come prefazione. Nonostante la sua autorità, come egli racconta, Pasquali batte invano alla porta di ben cinque editori italiani senza riuscire a far tradurre il volume. Maggior ventura ha avuto uno dei suoi migliori discepoli, ed ecco il libro tradotto con una sua postfazione. L'interesse dei nostri filologi classici è dovuto al fatto che l'autore (morto nel 1928 a sessant'anni) fu anch'egli filologo classico, professore a Gottinga. Ma il libro non è certo solo per addetti ai lavori filologici: è una garbata, benevola rievocazione, solo raramente incrinata dal rancore dell'oppresso, della gioventù di un ebreo polacco che faticosamente si libera dall'angusto ambiente e dalla cultura d'origine per accedere al mondo della scienza, che per lui, come per tutti gli ebrei orientali, era quello della vicina Germania, dove poi riuscì a studiare e a insegnare peraltro nei limiti concessi colà ai suoi pari in epoca guglielmina, cioè quasi nell'oscurità. Del resto l'autore è consapevole che la progredita Germania cela in sé il veleno dell'antisemitismo. In Polonia vige il disprezzo reciproco tra ebrei e polacchi. "L'odio, in particolare l'odio razziale, era sconosciuto. Comparve solo più tardi, nel nostro paese, importato dalla Germania". E gli riesce difficile, già nel ginnasio tedesco a Poznan, reprimere la spontaneità e abituarsi alla disciplina prussiana. Resta il fatto che la cultura tedesca, non appena egli ne subodora l'esistenza, segna una svolta nella sua vita. "Mi resi conto che non vivevo affatto nel presente ma in un passato lontano e superato, e che del presente mi facevano conoscere solo stupide favole". È la stessa illuminazione che aveva colto un secolo prima Salomon Maimon e che coglierà qualche decennio dopo Isaac Deutscher sul punto di diventare rabbino. La nostalgia di un mondo ora ferocemente distrutto non deve far dimenticare che esso poggiava appunto sulla negazione del presente. Questa nostalgia non manca in Lidzbarski, che rivisita quel mondo proprio come un mondo di favola, accettandone con bonaria ironia l'assurdità, talora difendendolo con una certa pedanteria positivistica. L'omicidio rituale dei bambini è un'accusa gratuita che è costata molto sangue agli ebrei e non alle presunte vittime, ma lui sente il bisogno di precisare: "Già da piccolo avevo un occhio vigile per queste cose e, se un'usanza simile ci fosse stata, non mi sarebbe certo sfuggita". Non stentiamo a crederlo. Duole che le traduttrici siano digiune di cultura ebraica. L'errore più divertente è che Maimonide riceve l'appellativo di "capo dei deviati". Forse allusione a trascorsi giovanili del grande filosofo medievale? No, si tratta del titolo della sua opera più famosa, che in italiano si rende solitamente con "Guida degli smarriti". Il filosofo voleva additare la via, non farla perdere. Se Führer in tedesco vuol dire sia "capo" che "guida" traducendo è opportuno distinguere. In seno alla cultura ebraica Maimonide fu veramente una guida per coloro che si erano smarriti nei meandri del Talmud, per Lidzbarski come per Salomon Maimon, che da lui prese il nome. A proposito di Maimon, non si capisce perché nessuno ristampi la sua bellissima autobiografia, già egregiamente tradotta da Emma Sola negli anni venti e certo molto più importante, anche se forse di lettura meno amena, più impegnata e drammatica, di questa del Lidzbarski, che del resto la cita con molto rispetto. Anch'io ho bussato da vari editori per farla entrare ma nessuno le ha aperto. I filologi classici alla lunga con Lidzbarski l'hanno spuntata. Perché i filosofi non provano con Maimon? Ne va dell'onore della categoria.
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