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Dal riformismo al neoriformismo: non si tratta di un'aggiunta di prefisso, ma di un "mutamento paradigmatico" che ha poco della teoria delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn e molto della resa psicologica, per opportunismo o fragilità di convinzione ideale e tenuta teorica, del nuovo pensiero unico che è poi riemersione del vecchio ottocentesco primato dell'economia politica liberale e dell'ideologia della naturalità del mercato e delle sue regole ferree. Non è stato affatto un salto di qualità, ma piuttosto una fuga irrazionale prodotta dal 1989 e dal crollo del comunismo mondiale. La fede si è tramutata tutto d'un tratto e quasi senza residui in quella forma di scetticismo che è il "postmodernismo". Ma l'abbandono, in non pochi casi ignominioso, non legittima alcuna dichiarazione di totale invalidità scientifica della teoria marxiana. È in questi termini che Paolo Favilli, muovendosi tra il suo mestiere di storico e la propria passione politica, tratteggia il percorso compiuto dalla sinistra italiana, anzitutto quella comunista, dagli anni settanta agli anni duemila. Si tratta di un libro contro l'impostazione politica e culturale che ha ispirato il progetto del Partito democratico. Da quanto si può dedurre dalla sua ricostruzione, non parrebbero esserci ragioni teoriche sufficientemente valide per sostenere che il neoriformismo attualmente dominante nella sinistra italiana sia logica evoluzione del "riformismo comunista" degli anni ottanta, e nemmeno di quello "socialdemocratico" di autori come Sylos Labini o Tarantelli. Ancora in quel decennio, fino alla vigilia del crollo, si pensava a politiche economiche non arrendevoli nei confronti degli automatismi del mercato. Poi, la slavina. Dal libro non si ricavano tuttavia elementi chiari e distinti atti a spiegare il perché e il come di questo passaggio dall'"essere all'oblio". Danilo Breschi
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