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Le riflessioni contenute in questo volume vogliono essere una sollecitazione alla ripresa di un pensiero critico non ideologico e all'assunzione personale di una responsabilità etica che vada nella direzione di una trasgressione del conformismo dilagante. Nulla a che vedere, dunque, con la sociologia del reincantamento tribale di Michel Maffesoli. Ciò che preme all'autore è individuare i margini entro i quali è ancora possibile oggi, a livello individuale, recuperare una dimensione di reincanto e, quindi, di relativa autonomia rispetto ai condizionamenti sociali. Perché è convinto che non sia possibile riprendersi la vita al di fuori di una dimensione di reincanto. Un mondo totalmente disincantato è un mondo senz'anima, dove gli esseri umani sono ridotti a pedine, ad automi. Ma l'incanto dobbiamo imparare a crearlo da noi, intorno a noi, nella qualità delle nostre relazioni, del nostro modo di stare con noi stessi, nello sguardo che proiettiamo sul mondo, perché la realtà non è indipendente dal nostro sguardo. La devastazione dell'ambiente e della morale, la degradazione delle relazioni umane sono anche figlie del disincanto ad oltranza. Ma l'uomo non può vivere senza bellezza. Il piacere della bellezza lambisce ogni aspetto della nostra esistenza, è l'elemento costitutivo di ogni esperienza di spiritualità. Senza bellezza, l'anima appassisce. Rimaniamo tutta la vita degli estranei a noi stessi. E questa estraneità la manifestiamo sotto forma di disagio esistenziale, d'insoddisfazione, di aggressività. Dal punto di vista laico dell'autore, il senso, il significato della vita non esiste precedentemente e indipendentemente dalla nostra capacità di produrlo. Per cui il senso non è dato dall'esterno o dall'alto a una vita che non sia vissuta. Mentre è proprio il vivere la vita che produce senso. E la vita non la si vive quando non s'incontra mai se stessi, quando ci si smarrisce sullo sfondo indistinto del rumore e dei comportamenti massificati o tribali.
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