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Il riso sotto il velame. La novella cinquecentesca tra l'avventura e la norma
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Dettagli

1987
1 dicembre 1987
248 p.
9788822235435

Voce della critica

BRAGANTINI, RENZO, Il Riso sotto il Velame, Olschki, 1987

AA.VV., Ysengrimus. Text with Transalation, E.I.Brill, 1987
recensione di Boitani, P., L'Indice 1988, n. 2

Un'occasione unica nel nostro secolo si offre oggi al pubblico europeo ed americano, quella di leggere il testo latino ed una accuratissima traduzione inglese dell'"Ysengrimus", lo straordinario 'epos' animalesco della metà del XII secolo ritrovato per la prima volta in manoscritto da Jacob Grimm nel 1814. Si tratta di un poema di oltre seimilacinquecento versi che costituisce il primo esempio coerente, completo e monumentale di narrativa animalesca in Europa - più divertente, più sottile, ma altrettanto dirompente, della "Fattoria degli animali" orwelliana. Al contrario della letteratura ad esso successiva, l'"Ysengrimus" non ha al suo centro la volpe Renard (che ne è però insostituibile deuteragonista), ma racconta le disavventure di suo zio, il lupo Ysengrimus. "In bocca al lupo. Crepi il lupo", recita il detto che, in Italiano, Jill Mann usa come spiritosa epigrafe del suo volume. È precisamente l'itinerario che il lettore del poema segue passo passo, dal momento in cui il lupo inghiotte la pancetta affumicata imbrogliando la volpe, all'istante finale, in cui egli stesso viene divorato dai maiali. Il mondo si è dunque capovolto: il maiale fagocitato è divenuto sbranatore. La bocca del lupo, l'immenso antro sempre in attesa di cibo e continuamente pieno di parole, scompare. E tuttavia questa non è che l'ultima, apocalittica scena in una serie di episodi costruiti, l'uno dopo l'altro, secondo lo schema che la curatrice giustamente identifica nella espressione "luditur illusor" - l'ingannatore è giocato. La beffa ai danni del lupo si ripete, in un crescendo di crudeltà, almeno otto volte, con varie mutilazioni del suo corpo e con oltraggi e violenze nei confronti dei suoi figli e di sua moglie. Nella scena centrale del poema la volpe suggerisce al re Leone di fare una cura di sudore dentro la pelle di un lupo di tre anni e mezzo per guarire della sua malattia. Si discute così a lungo l'età di Ysengrimus e si prova che è quella giusta. Il lupo viene scuoiato all'istante dall'orso.
Episodio cruciale, questo, e da diversi punti di vista. Perché in esso il lupo è sottoposto ad un contrappasso radicale: lui, il "monaco" che non fa altro che "tosare" il suo gregge con avidità senza fondo, viene privato non solo del pelo, ma della pelle stessa. E perché questa pelle è anche, nel poema, il "vello" su cui il libro viene scritto, e scuoiare il lupo è, per l'orso, "leggere". Infine, paradigmatica è la disquisizione su l'età di Ysengrimus: essa non ha nulla a che fare con la realtà, con l'aspetto esteriore o lo stato di salute dell'animale. Una pura costruzione di logica verbale, una catena di artifici retorici straordinari "prova" senza appello che il lupo ha tre anni e mezzo. Anche la parola si rivolge dunque contro il suo maestro e si divarica integralmente dal reale.
A questa molteplicità di livelli, e alla meravigliosa verbosità del poema, ci allertano con raffinatezza di interpretazione, con la solidità di un metodo che usa, ma va anche oltre, Jauss e Bachtin, con vastissima erudizione storica, le duecento pagine di Introduzione - un vero e proprio volume nel volume - che Jill Mann dedica all'"Ysengrimus", alle sue metafore centrali della pace, del corpo, della festa, dei giochi, e alle figure reali che in esse traspaiono. Dietro al lupo c'è infatti l'uomo, e più particolarmente il monaco medievale, e in specie un "trio" di lupi-monaci costituito da Anselmo vescovo di Tournai, assieme addirittura a San Bernardo di Chiaravalle e papa Eugenio III. Insomma il poema è un 'iocus' "su scala mostruosa", ma, in quanto "capovolgimento scherzoso del gioco crudele della vita reale", esso ci conduce senza scampo al riso.
Sarà proprio la relazione tra questi "giochi", gli "inganni altrui", e l'umano ridere ad essere esplorata secoli dopo, con aristotelica precisione e con "l'occhio inquieto del riformato", da Lodovico Castelvetro, teorizzatore di quel "riso sotto il velame" che dà il titolo al volume di Renzo Bragantini e che è così diverso dal ridere aperto procurato dalla epopea satirico-animalesca medievale. Bragantini si occupa della novella italiana del Cinquecento, e dunque non più d'animali, bensì di uomini, ed indaga con vivace puntualità i mutamenti che questa forma di straordinario successo ha attraversato a partire dal "Decameron*. La pietra di paragone, per Castelvetro come per gli autori cinquecenteschi di novelle, non può non essere l'inusitata collezione boccacciana di storie. Un importante libro di Giuseppe Mazzotta, "The World at Play in Boccaccio's Decameron* (Princeton University Press, 1986), vede appunto nel "gioco" la metafora centrale del "Decameron*, cioè quella "attraverso la quale Boccaccio riflette sull'immaginazione" e "organizza il suo testo". Dato il posto che il gioco tradizionalmente occupa nella scala dei valori, si tratta, come Mazzotta avverte, di un evento culturale di rilevanza notevole, e più ancora di un fatto estetico.
Ora, cosa accade a tutto questo nel Cinquecento? La "beffa" rimane certo al centro della novella, ma, come ci indica Bragantini, l'attenzione del narratore si sposta (per esempio nelle "Cene" del Lasca) "dal beffatore al beffato". È un movimento molto diverso da quello apparentemente simile che ha luogo nell'"Ysengrimus": privato di ferocia satirica, esso è risultato, invece, di "compiacimento masochistico". Mutano poi, al fondo, la concezione stessa e la visualizzazione dello spazio in cui l'intreccio ha luogo. Sulla scorta di un saggio dostoevskiano di Toporov, Bragantini ci mostra con eleganza che il "sistema spaziale dominante" della novella cinquecentesca è quello "attivo, d'intreccio", e in esso "fa spicco nettamente la percezione chiusa", in contrasto con l'opposizione tra apertura e chiusura che regna sovrana nel "Decameron*. Insomma proprio al culmine della sua fortuna, la novella tende alla propria entropia.
Attentissimo agli spunti teorici rinascimentali e contemporanei, il discorso di Bragantini ci fa riscoprire testi poco noti al pubblico non specialista, come il "Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo" che si pretende tradotto dal persiano, o "Le sei giornate di Sebastiano Erizzo". Ma i suoi risultati migliori sono nell'esplorazione di quei concetti di "matassa" e di "laberinto", degli "accidenti diversi" teorizzati dal Bandello, che portano ad una diluizione della novella rinascimentale. Non sarà un caso che il volume termini con un capitolo dove la parola "gioco" ha connotazione profondamente diversa rispetto a quelle che abbiamo visto sin qui: "La forma in giuoco".

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