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La rivoluzione manageriale - James Burnham - copertina
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Dettagli

1992
Libro tecnico professionale
XXXII-276 p.
9788833906676

Voce della critica


recensione di Bongiovanni, B., L'Indice 1992, n. 8

"The Managerial Revolution* comparve una prima volta in Italia nel 1946, da Mondadori, con il titolo, fortemente voluto dall'editore, e purtuttavia fuorviante, "La rivoluzione dei tecnici". Allora, evidentemente, il termine manager (già utilizzato in inglese nel manoscritto del III Libro del "Capitale" di Marx e già mutato, nella trascrizione di Engels, nel tedesco 'Dirigenten') rischiava di non essere capito, cosa tanto più spiacevole se si considera che il libro di Burnham, pubblicato negli Stati Uniti nel 1941 (e concluso all'inizio di quell'anno cruciale), arrivava in Italia con le credenziali del best-seller.
La proposta di Burnham non sarebbe comprensibile senza far riferimento al suo passato di intellettuale "marxista". Leninista americano e seguace di Trockij, Burnham ha infatti negli anni trenta partecipato, da protagonista, all'acceso dibattito teorico e politico sulla natura sociale dell'Urss. In contrasto con le analisi del maestro, aveva sin dal 1937 sostenuto, insieme a Carter (pseudonimo di Joseph Friedman), che in Urss, dove lo stato borghese non era stato restaurato, non vi era più neppure uno stato operaio, ma una nuova formazione sociale n‚ capitalistica n‚ socialistica. Qualcosa di assolutamente inedito (e dunque postcapitalistico) e non previsto (e dunque non socialistico) era sorto sul terreno sociale. Occorreva a questo punto andare più a fondo.
L'occasione non tarderà a presentarsi. Dopo il patto tra Hitler e Stalin e dopo l'inizio della seconda guerra mondiale, Burnham rompe definitivamente con Trockij, aderisce in un primo momento all'ala dissidente del Socialist Workers' Party di Max Shachtman (che si oppone alla "difesa dell'Uras" invocata sino alla morte da Trockij) e poi volge risolutamente le spalle al marxismo, la cui filosofia della storia, tuttavia, continuerà con forza a condizionarlo, ragione non ultima, questa, della fortuna del libro del 1941 e del suo indubbio potere di fascinazione. Il testo in questione sancisce appunto l'avvenuto distacco di Burnham dal trockismo. Il sottotitolo ("What is happening in the World") la dice lunga, del resto, circa le ambiziose intenzioni dell'autore.
Che sta succedendo, dunque? Un fenomeno di enorme portata. La guerra in atto - quando Burnham scrive Hitler è ancora alleato con Stalin e gli Stati Uniti non sono ancora intervenuti - è il veicolo di una rivoluzione sociale che sta trasformando l'Europa e il mondo. La società capitalistica, proprio come aveva sostenuto Trockij dal 1938, è entrata nella sua fase preagonica. La caduta degli investimenti, la restrizione del commercio internazionale, l'impossibilità di sfruttare a dovere le aree arretrate e soprattutto l'irreversibile disoccupazione di massa succeduta al 1929 dimostrano che il capitalismo è ormai giunto alla fine. Non sarà però il socialismo a succedergli, bensì un nuovo modo di produzione, al cui interno i manager saranno, e già in parte sono, la nuova classe dominante. La storia sovietica, d'altra parte, dimostra l'improponibilità dello sbocco socialista.
Nell'Urss, in realtà, la rivoluzione manageriale ha fatto la sua prima e più perfezionata comparsa, ma anche l'Italia fascista, la Germania nazionalsocialista e l'America del New Deal stanno facendo passi da gigante nella stessa direzione. Burnham, con argomentazioni geometrico-simmetriche e un po' glaciali, fa spesso ricorso alla categoria storiografica dell'analogia. E così i manager possono essere equiparati a quei borghesi che avevano già acquisito un enorme potere dentro la società feudale. Il proletariato moderno, quindi, non ha più probabilità di vittoria di quante non ne avesse il popolo nell'antico regime. Il fatto è che la storia è il teatro non delle lotte di classe, ma delle lotte tra le élite. Burnham, come si può congetturare anche dal significato che attribuisce al concetto di ideologia, ha evidentemente già letto e meditato Pareto (il che sarà esplicitato nel successivo libro, del 1943, "The Machiavellians") .
Quanto ai totalitarismi attuali, essi sono paragonabili alle monarchie assolute della fase di transizione dal feudalesimo al capitalismo. Si addolciranno in futuro, a regime manageriale consolidato, e la democrazia partitica si trasformerà in una sorta di democrazia corporativa. Le vere rivoluzioni, dunque, sono i grandi processi sociali, mentre le guerre e le rivoluzioni politiche sono i potenti colpi di accelerazione effettuati dalla storia. Viviamo quindi, secondo Burnham, in un mondo in cui i manager, a partire dal 1914 (e dal suo frutto più maturo, il 1917), stanno sostituendo i capitalisti. Il 1939-40 (con la conquista della Francia e dell'Europa intera, esclusa l'Inghilterra, da parte del nazionalsocialismo "manageriale") ha accelerato il processo.
Ma chi sono i manager? Sono il frutto "dialettico" dello sviluppo capitalistico, uno sviluppo che, favorendo un'esasperata divisione del lavoro e trasformando le imprese industriali in corporations, ha di fatto separato la proprietà e il controllo. Così, la proprietà finirà con l'evaporare, come sostiene in questo periodo un liberista come Schumpeter, mentre il controllo, in un ambiente eco nomico-sociale dominato dallo stato, sarà, e già è, nelle mani dei manager vale a dire di quel personale che assicura di fatto, nello stesso tempo, la direzione tecnica e la coordinazione del processo produttivo. I manager insomma, privati o pubblici che siano, gestiscono un processo produttivo che sta emarginando la borghesia. La transizione è lunga, ma, dato lo sviluppo delle forze produttive (quanti spezzoni del "marxismo" conserva Burnham!), sarà infinitamente più breve di quella tra feudalesimo e capitalismo. Per le masse, che stanno appoggiando inconsapevolmente i manager, come nel crepuscolo del feudalesimo appoggiarono i capitalisti, il mlovo regime sarà un regime di sfruttamento. Di qui non si esce. La sovranità passerà infine dal legislativo all'esecutivo e con la proprietà privata si dissolveranno anche i parlamenti.
Ma non è finita qui. Burnham ha anche una visione geopolitica, imposta dalle circostanze. Si formeranno infatti, secondo la sua previsione, tre grandi superstati, aventi come centro gli Stati Uniti, la Germania e il Giappone: l'Urss, avanguardia sociale della rivoluzione manageriale, ma troppo arretrata sul piano economico-culturale, finirà con il gravitare in parte verso il centro europeo-germanico e in parte verso quello nippoasiatico. Gli Stati Uniti, infine, si risolveranno ad entrare in guerra e la guerra accelererà anche per loro la dinamica della rivoluzione manageriale. Il paradosso della teoria di Burnham è del resto proprio questo. Il paese più arretrato tra i grandi stati contemporanei, e cioè l'Urss, è il più avanzato nella marcia verso il futuro manageriale, mentre il più evoluto economicamente, e cioè gli Stati Uniti, è il più arretrato in tale marcia. Burnham rimane cioè prigioniero del mito sovietico, del mito che individua il battistrada della nuova umanità. Il sol dell'avvenire, tuttavia, pare tramontato per sempre.
Che dire a questo punto? Nell'introduzione, Salsano, dopo avere persuasivamente smontato la tesi del presunto "plagio" ai danni di Bruno Rizzi, mostra con chiarezza i limiti, ma anche la poderosa immaginazione sociologica, della tesi della rivoluzione manageriale. La guerra fredda, cui Burnham aderì come militante dell'oltranzismo anticomunista, rimuoverà questo modo a tutto campo di affrontare i problemi, inibendo una visione d'insieme dello sviluppo sociale. Si può dire, comunque, che, al di là della dicotomia tra proprietà e controllo, il vero vincitore è stato per ora il mercato, il grande sottovalutato dell'analisi di Burnham, un'analisi disincantata e ciononostante ipnotizzata dal grande discorso "marxista" sul solenne succedersi delle classi dominanti e dei modi di produzione.

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