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Robert Altman - Flavio De Bernardinis - copertina
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2
1995
174 p.
9788880330400

Voce della critica

  Le magnifiche retrospettive che ogni anno il Torino Film Festival ci offre non ci regalano solo la possibilità di rinavigare le acque filmiche di grandi cineasti (Polanski, Oshima, Ray, Houston per dire solo gli ultimi), ma lasciano anche un segno tangibile del loro passaggio, qualcosa che va oltre la celebrazione, per diventare impulso di una nuova riflessione critica che accompagna e segue la revisione degli opera omnia di registi imprescindibili. Mi riferisco ai libri che ogni anno il TFF pubblica insieme a Il Castoro, facendoli uscire in contemporanea con le giornate festivaliere e dedicandoli al regista la cui retrospettiva costituisce uno degli assi portanti della manifestazione: l'asse della memoria storica. Si tratta di un'operazione di bilanciamento tra il concorso principale, riservato a registi che non sono andati oltre l'opera terza, e la tradizione che fa di Torino la patria ideale di tutte le meraviglie che l'arte cinematografica ha saputo confezionare nell'arco della sua giovane esistenza. Nel 2011 la retrospettiva del TFF è stata di Robert Altman, uno dei più eccentrici e geniali registi di genere (o paragenere) che l'America abbia prodotto. Accanto ai soliti M.A.S.H., Short Cuts, Nashville, film che non si finirebbe mai di rivedere, abbiamo ritrovato capolavori meno consueti nelle nostre sale o nelle nicchie home video, come quel gioiello inquietante di cinema da camera che è Streamers oppure perle come California Poker o Gang, per non parlare dell'affascinante Three Women. Operazione culturale di grande spessore dunque, da ricordare anche per il volume che, a riflettori spenti, ha lasciato negli scaffali delle nostre librerie. Il Robert Altman curato da Emanuela Martini è solo secondariamente un catalogo delle opere del grande regista (biografia, filmografia e bibliografia, utilissime, sono in fondo al volume), mentre si configura principalmente come una raccolta di saggi (in parte riesumati antologicamente da cose già apparse in passato) che ci aiutano a focalizzare meglio l'opera imprendibile del vecchio cineasta di Kansas City. La prima parte, raccolta sotto il titolo Miti e giochi, racconta la difficile definizione del cinema di Altman, il suo lavorare sempre ai margini degli individui, delle situazioni, delle storie e dei generi. La corale sequela di antieroi, la "rifrazione prismatica di un mondo irrisolto", il percepire e concepire un film come un castello di sabbia, dove tutto è definitivamente provvisorio, sono gli elementi che meglio spiccano in questa analisi a più voci; come anche il frequente e magistrale richiamo ai generi cinematografici, abitati con metodo, ma solo con lo scopo di decostruirli, di polverizzarli, sistematicamente e analiticamente. Altman entra con ferma consuetudine nel western, nel noir, nel giallo, ma i suoi personaggi sono sempre degli stereotipi mancati, anche quando sono riprese di celebrità come il Marlowe disegnato assieme a uno dei suoi attori-feticcio, Elliott Gould. E il tema vero è la mitologia americana, nella quale la camera di Altman, con i suoi movimenti irrituali, scava senza pietà e senza arrivare a una soluzione (vedi ancora The Player oppure Nashville). Ben ci vengono descritte e analizzate le meravigliose maschere illudenti di personaggi ironizzanti, ma non autoironici, come la Millie di Three Women, in un primo momento personaggio altero e orgoglioso del proprio fascino e del proprio gusto, poi demistificato dal regista, che ne rivela l'ingenua ottusità. E così sempre, anche quando il cinema di Altman si fa stanco e un po' "seriale" (uno dei pregi del libro è appunto quello di non fare sconti all'eroe eponimo). E riusciamo a capire bene come possa essere grande e importante anche un regista che non piace sempre e comunque alla critica: è il cinema anticonformista di un autore che non ha mai saputo adeguarsi al film chiuso, quello che dà tutte le sue risposte allo spettatore, al cinema normativo anche postsessantottesco. Insomma, Altman è un regista che guarda il mito americano in controluce, giocando abilmente con i suoi colori, le sue forme e i suoi suoni, nella gigantesca maestria con cui dirigeva gli attori, allestiva spazi profilmici o gestiva le incommensurabili colonne sonore, forse uno dei tratti più distintivi del suo fare cinema (si pensi sempre a M.A.S.H., Nashville, ma anche a episodi apparentemente più defilati come Gang). Rane con le ali è la seconda sezione del libro, quella dove si affronta analiticamente la parabola artistica di Altman, a partire dal grande apprendistato semidocumentaristico presso la Calvin Company, dove affinò quelle tecniche del linguaggio cinematografico che diventeranno il tratto specifico della sua crescita autoriale, passando poi per la lunga attività televisiva, che lo porterà a lavorare in serie quasi mitiche (almeno per noi bambini di allora) come Bonanza. Qui il tratto ironico e dissacrante di Altman era già evidente e, come ben sanno i suoi biografi, gli procurò non pochi guai e licenziamenti. I saggi originali si alternano a una serie ben scelta di documenti critici d'archivio e di interviste d'epoca che danno al lettore un quadro molto chiaro su alcune fasi centrali nella carriera del regista e, soprattutto, aiutano a entrare meglio nell'atmosfera che, ai tempi, circondò alcuni dei suoi film più grandi, ma anche più discussi, tra cui spicca la bella intervista rilasciata fra il '71 e il '72 a Michel Ciment e Bertrand Tavernier per "Positif"). Dunque si tratta di un volume la cui imponenza e importanza è costituita anche da un apparato documentario a volte prezioso, soprattutto perché frutto di un'attenta ricerca fra riviste e saggi poco accessibili se non allo specialista, non sempre una raccolta di cose già uscite, ma anche testimonianze nuove, come l'intervista a Keith Carradine, che, peraltro, abbiamo incontrato ancora in gran forma alla proiezione torinese di Gang. Così viene analizzata in modo irrituale e per variopinti campionamenti tutta la carriera di Altman, passando dalla fuga da Hollywood (Lontano da Hollywood), fino al suo ritorno (Il "comeback") con passi imprescindibili del suo cinema come Short Cuts e The Player. Finora abbiamo parlato delle parole che cercano di descrivere in questo libro la vicenda artistica di Altman, ma non dobbiamo tacere dell'apparato iconografico, ricchissimo e di alta qualità, costruito e disposto secondo le rodate consuetudini editoriali del Castoro. A parte gli screenshots illustrativi, dobbiamo segnalare le gallerie tematiche (Il lungo addio, Circo America, Volti tra la folla) e, infine, l'antologia dei manifesti, protagonisti anche di una bella mostra al Museo del Cinema. Il risultato finale è sicuramente un prodotto editoriale elegante e bello, ma anche equilibrato tra divulgazione e serietà del taglio critico. E chiudiamo con una riflessione, ispirata da libri come questo, sull'editoria di cinema in Italia. Da più parti si lamenta il fatto che si pubblichino soprattutto libri celebrativi, biografie a effetto, "santini" pieni di colori, immagini e lustrini tipografici. Questo è senz'altro vero, come è vero che case editrici come Lindau, Le Mani, Utet o Il Castoro pubblicano anche importantissimi saggi di storia del cinema, di analisi dei linguaggi filmici, di traduzione intersemiotica e altro. I libri divulgativi, belli da vedere e sfogliare, sono però ugualmente importanti, se fatti bene, se il rapporto tra iconografia editoriale e parole è quello giusto. Questo Robert Altman ne è la prova: lo si sfoglia volentieri, ci sono belle immagini, dati e curiosità, ma la lettura è sempre impegnativa (non noiosa, impegnativa), nel senso che più di una volta costringe a fermarsi per capire bene il punto di vista di chi scrive e induce spesso a riflettere, a farsi un'opinione, quanto meno ad andare in un videonoleggio, prendersi un Altman e vederlo con altri occhi. E, questo, non è poco. Roberto M. Danese

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