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recensioni di Zangrandi, A. L'Indice del 2000, n. 10
Il ricco e originale itinerario proposto da Mariarosa Bricchi per analizzare il lessico arcaico e letterario nella narrativa italiana dell'Ottocento attraversa l'intero secolo, scandendolo in periodi e correnti o generi che, nella loro progressione cronologica, risultano a tutti gli effetti significativi delle successive posizioni assunte dagli autori in rapporto al problema della lingua più consona per la narrazione. Nel suo aspetto più vistoso tale problema si compendia nel valore e nel significato attribuito al lessico arcaico, che rappresenta la parte più cospicua del vocabolario della tradizione letteraria italiana.
Il primo capitolo del libro è dedicato ad alcuni romanzi storici scritti tra il 1827 e il 1838 (gli autori sono Guerrazzi, D'Azeglio, Grossi, Tommaseo e Cantù). È l'intervallo di tempo che separa le due edizioni dei Promessi sposi, e la riflessione e prassi linguistica di Manzoni è tra i punti di riferimento usati per saggiare la qualità della lingua dei romanzieri qui considerati. Il grande successo del romanzo manzoniano non fa scuola nemmeno presso gli autori che più gli si accostano e la ricerca di una lingua viva (che per Manzoni, come si sa, coincide con il fiorentino parlato dalla classe colta), contrapposta alla "roca trombazza d'un idioma impossibile" (Gadda, Apologia manzoniana), si rivela scelta per lo più perdente lungo tutto l'Ottocento. Accanto ai Promessi sposi, l'altro punto di riferimento per l'analisi del lessico arcaico sono i vocabolari ottocenteschi, in base alle cui indicazioni l'autrice cataloga il materiale linguistico, di mole veramente imponente, distinguendo tra voci sul confine (cioè di uso raro ma non del tutto morte), latinismi, voci poetiche e allotropi letterari (ai quali i romanzieri accordano in genere la preferenza).
Il secondo capitolo affronta il romanzo della Scapigliatura: lo sperimentalismo anche linguistico proprio delle opere di Dossi, Faldella, Imbriani, che spesso si colora di punte espressionistiche, viene confrontato da una parte con le opzioni più medie di Tarchetti, Rovani e Arrighi, e dall'altra con alcuni libretti d'opera verdiani, che, per la separatezza linguistica caratterizzante il melodramma, offrono molti esempi di aulicismi basici e costituiscono quindi una valida linea di discrimine che attraversa il secolo.
Il passo successivo e conclusivo è costituito dai romanzi di D'Annunzio, cui viene dedicato il terzo capitolo. Di fronte alle contemporanee scelte dei narratori di area meridionale (De Roberto, Serao, Scarfoglio...), le realizzazioni linguistiche dannunziane seguono le due direttrici dell'esattezza lessicale e della non naturalezza: per D'Annunzio infatti ricchezza della lingua non è ampiezza nel numero dei vocaboli ma scelta preziosa, e funzionali a questo fine risultano senz'altro le varianti grafiche arcaizzanti, il recupero dei suffissi, l'attivazione del significato etimologico e le voci a vario titolo arcaiche o letterarie individuate dell'autrice.
L'ultimo capitolo, infine, ripercorre i momenti salienti della discussione sulla lingua nell'Ottocento, analizzando con finezza il problema del lessico aulico e arcaico così come affrontato dai principali dizionari ottocenteschi e distinguendo tra i più antichi (D'Alberti, Costa-Cardinali), quelli concepiti come guida per il lettore (quinta impressione del vocabolario della Crusca, Tommaseo-Bellini) e quelli della lingua d'uso (Giorgini-Broglio, Rigutini-Fanfani, Petrocchi).
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