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Torinese di nascita, di formazione, di memoria stretta, ma residente instabile, prima a Roma, poi a Milano, poi nel borgo spezzino di Tellaro (senza contare i molti viaggi che ne contrappuntano la vita), Mario Soldati ha ricoperto più ruoli, intrapreso più professioni d'arte, mostrando ogni volta una duttilità sorprendente. Ma è stato soprattutto un eccezionale scrittore di racconti, un narratore di grana nobilmente orale.
Di certo uno dei narratori più geniali del nostro Novecento, come dimostra il "Meridiano" dei Romanzi brevi e racconti, pubblicato per la cura (egregia) di Bruno Falcetto, che già tre anni fa, nella stessa collana, aveva curato il volume dei Romanzi (in quel volume e in questo le Notizie sui testi sono di Stefano Ghidinelli). Vi si va da Salmace (1929) a Rami secchi (1989), da La verità sul caso Motta (1941) a La confessione (1955), da L'amico gesuita (1943) a Il vero Silvestri (1957), da 55 novelle per l'inverno (1971) a 44 novelle per l'estate (1979).
Maestro di doppi e doppifondi, Soldati è un classico che vale sempre la pena di rileggere, come ha ben compreso l'editore Sellerio, che ne aveva già rimesso in circolo grazie alla cura critico-filologica di quel sottile interprete di dissimulazioni che è Silvano S. Nigro alcuni titoli allettanti (su tutti non esito a dire che spicca la trilogia A cena col commendatore, 1951, che comprende tre piccoli capolavori come La giacca verde, La finestra e Il padre degli orfani, nel volume di Falcetto puntualmente raccolti). Ma prima ancora Interlinea, che, grazie a Roberto Cicala, ha tenuto costante l'attenzione a Soldati anche in momenti di perplessità editoriale, pubblicando, tra l'altro, il maliziosissimo bijou di Un viaggio a Lourdes, strappato al castone di uno dei volumi memorabili, L'amico gesuita (1943), e dando ultimamente vita a un'antologia locale di pagine disperse, che s'intitola Orta mia.
Sempre dal doppio fondo scandagliato scaturisce in Soldati l'impossibilità di un giudizio risolutivo, che non è poi se non difficoltà a dipanare fino in fondo il manzoniano "guazzabuglio", prevalendo in questo la natura del moralista (del moralista classico, ossia di colui che non teme gli sguardi intensivi del perturbante di cui sfida i misteri, individuandone fino alle ultime conseguenze i punti di contraddizione e gli elementi di prossimità). Del resto, dei moralisti francesi e di certi scrittori, come Villiers de l'Isle-Adam (soprattutto i Contes cruels e i Contes insolites) o Barbey d'Aurevilly (specialmente Les diaboliques) Soldati fu assiduo cliente. Per non dire che lo fu anche di certe atmosfere fin de siècle, legate al fantastico "provinciale" di un Calandra (o, ancor più flagrantemente, di un Fogazzaro).
Come a dire che sempre corre nel fondo lo spazio di un segreto sottilmente demoniaco e infero: quello in cui resistono sia la maschera inafferrabile dei personaggi, sia il vertiginoso esame dell'autore, che in qualche sua veste traslata si dispone a esplorarne i percorsi. In altre parole, la partita giocata nel gioco plurimo degli specchi pirandelliani (a non dire d'altri, vedi La finestra) che derivano non solo dai riflessi dell'autore nei suoi personaggi, ma nei molti "io" dietro cui si ripara, e che ne costituiscono le numerose incarnazioni narratologiche. Non, dunque, soltanto la questione di quanto tutto ciò possa riverberarsi sulla stessa identità dell'autore, ma di quanto, più profondamente, si riverberi sulla natura di un'omologia narrativa in cui si radica la sua cifra, la sua scrittura.
L'intuizione critica più felice resta ancor sempre quella di Cesare Garboli, che ha distinto "l'io dei romanzi di Soldati" dall'"io autobiografico del Soldati narratore e viaggiatore". Pur opinando che "la funzione narrativa e fantastica dell'io 'anagrafico' di Soldati non sia troppo diversa, anzi non sia diversa affatto da quella che presiede alla fiction", Garboli insiste su una distinzione che genera meccanismi differenti. Da una parte nei romanzi un "io" sdoppiato che proietta la realtà "in due piani che s'inseguono o in due facce che s'inseguono" (la formula di Garboli è irresistibile: "È come dire che Soldati è un romanziere dell'Ottocento con l'anima di uno scrittore del Novecento"); dall'altra nei racconti più autobiografici un "io" che ricompone lo sdoppiamento in un'unità dissimulata e non meno insidiosa, anzi più insidiosa che mai. Tanto più insidiosa quanto più all'apparenza diretta.
D'altra parte, di quel narrar "naturale" quasi ogni critico ha sottolineato gli aspetti (di una vita "a novelle" parla Falcetto nella sua articolata introduzione, in cui mi pare che meriti sviluppi ulteriori l'attenzione alla "visività" di Soldati, la sua predilezione per la ritrattistica e per il dettaglio). La dimestichezza con la materia che Soldati ha saputo piegare come cera, facendo percorrere al suo "narrar breve" tutti i détours (e i grovigli) più incredibili: forzando una digressione tenuta con sapienza in sospeso, oppure muovendo con disinvoltura tra le pieghe di un mistero che sembra dipanarsi da sé.
Sempre, in ogni caso, anche nella circostanza più modesta, la capacità di distribuire il fiato, di creare l'attesa di un avvenimento magari minimo (ma gravido di conseguenze), di sprigionare dalla semplicità e persino dalla banalità di un momento le più sottili sorprese. Sempre la sensazione che ogni cosa qualsiasi cosa possieda il dono di diventare materia narrativa. Che la vita stessa non sia lì se non per essere narrata, quasi senza filtri (mentre è l'esatto contrario). Mai lo "scrivere bene" come dimensione sovrapposta, come esercizio di stile, insomma. E invece l'aderenza alle cose, alle rughe della vita, alla sua varietà, alla sua ironia, al suo peso, al suo spessore. La realtà che accoglie l'irrealtà, o meglio, i suoi irradiamenti anche nella direzione dell'abnorme e dell'assurdo.
Quantunque possa sembrare improprio, può convenire per questo la traccia che sulle orme di Philippe Sollers ha segnato Philippe Forest in un suo saggio-conferenza tradotto da Gabriella Bosco, Il romanzo, il reale (Scuola Holden-Bur, 2003). Il possibile del romanzo (ma il racconto qui non fa eccezione) che non si concepisce senza "l'impossibile del reale", se è vero che la "realtà" è un dato e il "reale" sempre un'invenzione, la realtà il luogo del possibile, il reale appunto dell'"impossibile".
Non realismo, non mimesi, ma spazio della libertà, metamorfosi che dà forma all'esperienza, conducendo il senso della realtà fino ai suoi estremi, di cui ingloba la dimensione "altra", i territori dell'imponderabile, dell'inspiegabile, dell'insolubile, dell'insondabile. Nessun genere, quale che sia, in cui poterlo stringere, perché Soldati non è scrittore che si possa imprigionare in etichette o in una formula definibile. Tanto più dopo la lettura dell'intero "Meridiano".
Giovanni Tesio
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