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Descrizione


In questo volume, curato da Mariella Di Maio, trovano posto opere incompiute di grande interesse: l'ampio romanzo di costume "Lucien Luwen" e dieci opere narrative incompiute. Inoltre viene presentata la prefazione che Paul Valery scrisse a Lucien Leuwen e che testimonia l'interesse che l'opera stendhaliana ha sempre riscosso.
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Dettagli

2002
2 aprile 2002
XLIII-1425 p.
9788804500711

Voce della critica

Sei anni dopo il primo, ecco, nei "Meridiani", il secondo volume dei Romanzi e racconti di Stendhal, curato ancora una volta da quella che si è affermata come la migliore e la più attiva stendhaliana del suo paese, Mariella Di Maio, e sempre nella traduzione (eccellente, per quanto possa giudicarne un lettore francese) di Maurizio Cucchi. Seguirà un terzo volume.

Il pezzo forte di questo è costituito da Lucien Leuwen, che mi pare non abbia ancora conquistato agli occhi del pubblico la posizione che gli spetterebbe e che resta, se non poco amato, almeno abbastanza misconosciuto. Il Rosso e il Nero e La Certosa di Parma gli fanno ombra, ingiustamente, e c'è da rallegrarsi dell'occasione offerta da questa edizione di avvicinarsi a un testo di eccezionale ricchezza, particolarmente in sintonia con certe nostre preoccupazioni d'oggi.

Nella sua sostanziosa introduzione, Mariella Di Maio ricorda tutto quel che c'è da sapere della complicata genesi di questo romanzo, "grande frammento dell'epopea dell'inedito e dell'abbandono". Stendhal l'ha scritto nel 1834-35, l'ha ripreso nel 1836 e lo ha poi lasciato da parte. I primi diciotto capitoli sono stati pubblicati dopo la sua morte, nel 1855, da Romain Colomb, suo cugino ed esecutore testamentario; erano stati riletti e messi a punto dall'autore. Soltanto nel 1894 uscì un'edizione più completa, ma ancora piena di lacune e di errori. Le edizioni ulteriori (soprattutto quelle di Debraye, Martineau, Crouzet, Meininger) cercarono di aderire il più possibile al manoscritto, particolarmente difficile e caotico. Giacché Stendhal, man mano che scrive, aggiunge, cancella, modifica, traccia piani, si pone interrogativi sui propri procedimenti, di modo che i margini del testo finiscono per ospitare il diario problematico della sua stessa elaborazione. Tutti coloro che hanno potuto consultare il manoscritto (conservato alla Bibliothèque Municipale di Grenoble) sono stati colti dalla vertigine davanti alla complessità quasi folle di un tale cantiere di scrittura in progress, dove il racconto ha l'aspetto di un magma ancora fluido, non coagulato, esitante sulla propria forma definitiva, a volte in contraddizione con se stesso. Il proliferare di questo infra-discorso autocritico apre affascinanti prospettive sul carattere infinito del lavoro romanzesco, qui colto sul vivo con un'indiscrezione atta a deliziare il voyeurismo della critica genetica; ma pone al tempo stesso problemi di edizione alquanto ardui perché, oltre alla difficoltà puramente materiale di decifrare il testo, la sua fedele riproduzione condurrebbe inevitabilmente a un effetto di paradossale illeggibilità. Invece di mettere in luce le segrete modalità della creazione, se ne renderebbe il risultato opaco e aggrovigliato. Come sostiene giustamente Mariella Di Maio, la sola edizione critica possibile di Lucien Leuwen implicherebbe una riproduzione fotografica del manoscritto, accompagnata dalla trascrizione diplomatica, pagina per pagina, come è stato fatto di recente per un altro arduo testo stendhaliano, la Vie d'Henri Brulard. S periamo che un editore coraggioso, dalle reni solide e beylista fino alla filantropia, osi un giorno lanciarsi in questa avventura disinteressata.

Nel frattempo, nella cornice della collana in cui pubblica la sua edizione, Di Maio ha dovuto operare alcune scelte. Ha cercato, con successo, di salvare l'essenziale; ha dunque optato per quello che le è parso, a giusto titolo, un juste milieu, per usare la stessa espressione con la quale, in Lucien Leuwen, Stendhal definisce ironicamente il regime di Luigi Filippo di cui traccia un quadro al vetriolo. Davanti all'impossibilità pratica di fornire un apparato esaustivo di varianti, ha deciso di riprodurre le più importanti in nota e di far seguire al testo una sorta di "diario" del romanzo (un po' come il Journal des Faux-Monnayeurs di Gide), presentato in ordine di stesura. Questa scelta necessariamente parziale è, credo, la meno sbagliata (di giuste non ce ne sono) tra le possibili soluzioni metodologiche ai problemi posti dalla specificità, lussureggiante sino all'asfissia, del manoscritto di Lucien Leuwen. Per la prima volta i lettori italiani saranno così in grado di farsi un'idea di questo "secondo livello" dell'opera che si commenta, si ausculta, si riscrive nel momento stesso in cui si scrive.

Lucien Leuwen, primo romanzo dopo Il Rosso e il Nero, era stato concepito da Stendhal come un trittico. La prima parte doveva descrivere la vita di un giovane ufficiale di guarnigione in una città di provincia sotto la Monarchia di Luglio; la seconda doveva collocarlo a Parigi, in mezzo agli intrighi della politica ministeriale, e la terza doveva ampliare il suo campo d'azione all'estero, nell'ambiente delle ambasciate, a Roma o a Madrid. Soltanto le prime due parti sono state scritte; alcuni elementi della terza si ritrovano in Una posizione sociale, presente in questo stesso volume. L'ambizione di delineare un vasto affresco della società francese è evidente. Se Stendhal non ha la distanza nel tempo propria dello storico, ha la distanza nello spazio, perché sta a Civitavecchia, funzionario di un governo che disprezza: una delle ragioni che lo indurranno a conservare inedito in un cassetto il manoscritto di questo romanzo è certamente l'impossibilità, per un console che non voglia abbattere il ramo sul quale sta seduto, di pubblicare una denuncia di quello stesso potere che lo paga.

Da Alain in poi, Lucien Leuwen è considerato un grande romanzo politico, forse il più grande del XIX° secolo, un romanzo della politica, che ne smonta a caldo le sordide molle, e, in questo senso, un romanzo "impossibile". Non si può entrare in questa dimensione capitale di Lucien Leuwen senza possedere una conoscenza precisa e approfondita degli anni trenta dell'Ottocento e del regno di Luigi Filippo, "il più briccone dei Kings"; nelle sue note, Mariella Di Maio fornisce tutte le informazioni necessarie a chi non abbia familiarità con questo periodo della storia di Francia. Stendhal infarcisce il suo testo di allusioni all'attualità più recente e più scottante; a volte si direbbe che scriva con i giornali appena usciti sotto gli occhi. Il protagonista attraversa l'inferno derisorio della politica guidato da vari "Virgilii in negativo". Sono loro a iniziarlo a quel regno del nulla, lontano dal quale brilla un'unica stella: quella della pura madame de Chasteller, che le sue idee legittimiste - cioè poeticamente irresponsabili, dal momento che non hanno alcuna possibilità di tradursi in realtà - mantengono all'opposizione, e di conseguenza fuori dalla palude. Lucien Leuwen, il romanzo più implacabilmente politico di Stendhal, sino a una nausea già flaubertiana, è anche paradossalmente (o logicamente) quello che invalida nel modo più radicale l'ordine, o meglio il disordine costituito del politico, riconoscendo, in mezzo alle macerie moderne dei valori, che l'Eros soltanto perdura e significa. Lucien Leuwen è anche un magnifico poema d'amor cortese, che resta però aperto, anzi ambiguo: benché Stendhal avesse previsto un happy end con matrimonio, il testo nello stato in cui ce l'ha lasciato non consacra questo scioglimento felice, e quel che alla fine domina nell'animo nel lettore non è, come negli ultimi giorni di Julien Sorel, la felicità condivisa, ma la nostalgia di un orizzonte appagante per il cuore, dal quale ci si sente esiliati senza sapere se un giorno si riuscirà a raggiungerlo.

Il saggio introduttivo di Mariella Di Maio mette in luce con pertinenza tutto quel che è in gioco in quest'opera densissima, che ci parla più di altre, perché anche noi assaporiamo giorno per giorno l'amaro sapore della mediocrità politica e del fallimento dei grandi ideali civili, e anche noi cerchiamo di che consolarci nel ripiegamento sulla sfera intima.

Il volume è completato da dieci novelle o racconti. Accanto a un capolavoro come Mina de Vanghel, si scopriranno con piacere testi molto meno conosciuti come Il cofano e il fantasma, Il filtro, Philibert Lescale, L'ebreo, Una posizione sociale, Il Rosa e il Verde, Il cavaliere de Saint-Ismier, Féder. Nella sua presentazione, Mariella Di Maio solleva le questioni poste dal ricorso stendhaliano alla forma breve e giustifica il ricorso a raggruppamenti tematici (serie spagnola, serie tedesca). Ancora una volta, nessuna soluzione è pienamente soddisfacente. Anche l'ordine cronologico può avere i suoi vantaggi. La produzione stendhaliana non va da un punto a un altro in linea retta, obbedisce a sollecitazioni d'ogni genere e in ogni direzione, a volte anche esterne. Vanno riconosciuti i diritti di una certa "incoerenza", che forse non è altro che l'imprevisto della vita. Nessun dubbio, in ogni caso, sull'importanza di questi testi eterogenei, che attestano due tendenze fondamentali: verso la scrittura breve e verso l'incompiutezza. Il prossimo appuntamento sarà quello con le Chroniques italiennes.

In questo volume si trovano, inoltre, il celebre saggio - intelligentemente commentato - dedicato da Valéry a Stendhal come prefazione all'edizione Champion di Lucien Leuwen (1926-1927) , ricostruzioni molto solide della storia di ogni opera, una ricca bibliografia e la miglior cronologia esistente della vita di Stendhal, dovuta a Michel Crouzet; quanto basta perché venga accolta come merita quest'importante edizione, che segna uno spettacoloso progresso rispetto a quanto era stato sinora offerto ai lettori italiani.

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Stendhal

1783, Grenoble

Pseudonimo di Henri Beyle. A sedici anni si trasferisce a Parigi dove si impiega al ministero della Guerra. Nel 1800 raggiunge l'armata napoleonica in Italia e lavora come impiegato nell'amministrazione imperiale, viaggiando in Germania, Austria e Russia. Dopo la caduta di Napoleone si stabilisce in Italia, abitando soprattutto a Milano. Torna a Parigi nel 1821, vive collaborando a riviste con articoli di critica artistica e musicale. Dopo la rivoluzione del 1830 e l'avvento di Luigi Filippo viene nominato console a Civitavecchia. Muore a Parigi. Le sue opere principali sono: "Considerazioni sull'amore" (1822), "Il Rosso e il Nero" (1830), "La Certosa di Parma" (1839), "La Badessa di Castro" (1839), "Vita di Henry Brulard" (1890), "Ricordi d'egotismo" (1892), "Lucien Leuwen" (1894).

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