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Dopo un’esperienza ventennale nel carcere di Rebibbia, una volontaria racconta, attraverso molteplici storie di altrettanti detenuti, tutto quello che i reclusi vivono sulla loro pelle. Un libro da leggere e rileggere per non dimenticare che il carcere – che dovrebbe servire alla rieducazione dei detenuti – molto spesso diventa un luogo di perdizione.
Recensioni
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Questo libro spiega tutto ci= con acutezza e semplicità. + uno sguardo "dal di dentro" che attraverso la voce e i pensieri i singhiozzi e le grida di chi è detenuto segna a tutto tondo il resoconto della vita fatta reclusione. Essa è innanzitutto uno stato costante di alterazione delle percezioni sensoriali. I rumori del carcere cos8 come gli odori la luce i colori la profondità dello spazio non sono quelli che tutti conosciamo: sono diversi limitati e limitanti spesso invasivi e disturbanti. Pagina dopo pagina si comprende che la privazione della libertà per come si configura nel nostro sistema penale dove la detenzione carceraria risulta l'unica vera politica attuata sia esperienza inimmaginabile per chiunque non la sperimenti in prima persona.
E proprio perchè coincide con una condizione corporea non meramente "privativa" ma ben pi· profondamente alterante. Alterazioni che dalla vista dall'udito dal tatto dai sensi tutti si fanno vita quotidiana durata persistenza immutabilità. Per questo soprattutto per questo i detenuti non sono cittadini come tutti gli altri: perchè oltre a scontare una pena (o a vivere reclusi in attesa di una condanna o di una assoluzione) sperimentano una realtà fisica (e quindi morale) radicalmente altra. E per questo vivono la loro separazione dal mondo dei liberi con un misto di nostalgia e paura desiderio e inquietudine.
Il rapporto con ci= che resta fuori dalle mura del carcere è un rapporto contraddittorio di anelito e distanza di ricerca e separazione. C'è chi finisce con il non sopportare l'orrore e l'abbrutimento che ne vengono e trova nel suicidio la soluzione estrema il superamento ultimo e definitivo dei confini angusti fisici e spirituali della propria esistenza (in carcere ci si toglie la vita diciotto volte pi· di quanto si faccia fuori). C'è chi il suicidio lo tenta senza riuscirvi e chi usa consapevolmente la violenza contro se stesso come ultima possibilità di comunicare qualcosa a qualcuno. In carcere l'autolesionismo è un fenomeno diffuso che riguarda un detenuto su sette; è un'espressione di violenza autistica ma è anche un tentativo û disperato e insieme razionale û di espressione. Se ne pu= cogliere la crudezza osservando i toraci i colli e le braccia dei corpi prigionieri che si sono sottoposti al rito del "taglio". Il "tagliarsi" il farsi male e il tentativo di togliersi la vita costituiscono spesso la sola forma di autorappresentazione e l'unica voce (pur stenta e rotta) rimasta a chi per definizione e per condizione è senza voce. Quei "tagli" quelle ferite quelle cicatrici sono l'alfabeto di una "scrittura" faticosa e dolente.
Quella stessa separazione dal mondo oltre le sbarre pu= anche disadattare all'esistenza libera e disabituare alla normalità riducendo l'individuo alla sua "nuda vita": perchè il carcere è anche il luogo in cui la persona viene definitivamente spogliata della propria autonomia e di ogni capacità di essere responsabile di sé stesso in virt· di un meccanismo di "infantilizzazione" che il libro descrive con grande efficacia. A questo meccanismo se ne aggiunge un altro concomitante e per molti aspetti "precipitante" rispetto a qualsivoglia istanza "rieducativa": il carcere è anche il luogo della spersonalizzazione e dello smarrimento dell'individualità del singolo fatto numero massificato ridotto a mero nominativo nella macchina della burocrazia penitenziaria.
La spia pi· vistosa di questa condizione è l'affollamento degli istituti di pena che costituisce di per sé una situazione di estremo disagio ed è al contempo sintomo di gravi carenze organizzative e strutturali. Chi è detenuto in carceri affollate patisce condizioni igieniche spesso pessime scarsità di personale medico di psicologi di educatori; e ancora strutture fatiscenti servizi inadeguati rapporti assai problematici con l'amministrazione e con il personale di custodia; e massima difficoltà di accesso alle attività ricreative formative lavorative.
Il libro di Daniela De Robert rende voce a questa massa di vite storie esperienze cadute: racconta di tante persone che "sembrano proprio come noi". Ce ne mostra la vita di tutti i giorni ce ne traduce linguaggi e riti condotte e relazioni; ne mette in luce e ne spiega dettagli e risvolti altrimenti oscuri o incomprensibili con una scrittura mimetica semplice e di notevole impatto. L'autrice riesce cos8 a disegnare pagina dopo pagina una rappresentazione tanto minuta quanto densa dalla quale emergono progressivamente tutti gli aspetti della vita reclusa: dall'alterazione delle percezioni sensoriali e da quel processo di infantilizzazione già richiamati fino al "mal di libertà" e al conto infinito del "termine pena"; e poi la solitudine e il senso di comunanza tra detenuti; e ancora la durata del tempo in prigione la circolazione di voci dicerie e leggende l'esperienza dell'ergastolo e quelle della semilibertà e della sospensione della pena; infine la fatica del reinserimento una volta fuori ma anche la difficoltà di svolgere volontariato in carcere e di "migliorarlo" (un po' almeno un po') quel sistema. Quindi a mo' di appendice una serie di storie esemplari e controverse che da sole renderebbero il senso di cosa sia l'esperienza della detenzione. Aspetti e temi assai differenti e tuttavia uniti dal filo rosso di una scrittura prossima a divenire narrazione vera e propria.
+ un libro da leggere per comprendere qualcosa di una realtà oscura e oscurata che qualcuno ha definito "discarica sociale" e che molti vorrebbero definitivamente tale.
Luigi Manconi e Andrea Boraschi
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