Prologo Alison non ricordava più l’ultima volta in cui il suo cuore aveva battuto da viva. Aveva ancora la memoria del momento in cui la vita le era stata strappata via, dissolta in un vortice di sangue antico e putrido. Il vampiro che l’aveva scelta era uno dei più vecchi, un predatore che conosceva i meccanismi oscuri dei loop: pieghe del tempo e dello spazio che potevano intrappolare le vittime, rivolgendo all’infinito la loro morte, i loro gridi, le loro paure. Lui l’aveva vampirizzata per farne uno strumento, ma aveva commesso un errore: aveva lasciato intatto in Alison un seme di ribellione, una scintilla di coscienza che non poteva domare. Quando aveva incontrato di nuovo Bruce, suo fratello minore, non aveva esitato. Lo aveva trascinato nel buio, lo aveva spezzato e ricostruito, trasformandolo nella stessa creatura che era diventata lei. Lui l’aveva odiata per questo, per un istante. Poi la sete aveva fatto il resto: il sangue scivolato lungo la gola, il bruciore nella carne, la visione deformata del mondo. Alla fine, erano diventati simili, legati da un vincolo più profondo del sangue umano. Insieme avevano cacciato e distrutto l’Antico. Lo avevano intrappolato nei suoi stessi loop, costringendolo a vivere e morire infinite volte, fino a dissolversi in un riflesso senza corpo, in un’eco che si era spenta tra i vetri di una stazione abbandonata. Ma la vittoria non era stata liberazione. Era stata trasformazione. Ora i loop appartenevano a loro. Erano i padroni del riflesso, del tempo distorto, del sangue replicato. E la loro sete era diventata fame di dominio. Era il 22 ottobre, poco dopo le dieci di sera. La linea U8 correva sotto Berlino, scivolando nei suoi tunnel come una lama in vena. Sopra, la città era illuminata dai neon dei kebab, dai lampioni tremolanti di Gesundbrunnen, dai graffiti umidi che raccontavano storie di notti senza fine. Ma sotto, al livello del cemento e delle rotaie, non c’era più Berlino: c’era solo il mondo dei riflessi. Alison salì sul treno a Hermannplatz. Indossava un cappotto nero, stretto in vita, che non serviva a scaldarla ma a nasconderla. Gli occhi le brillavano di un riflesso metallico, difficile da cogliere per gli altri passeggeri: una luce che non apparteneva alle lampade al neon né ai telefoni accesi. Bruce la seguiva di un passo, più imponente di lei, le spalle larghe sotto la giacca scura. Avevano un aspetto ordinario, quasi umano. Nessuno avrebbe immaginato il vortice che ribolliva sotto la loro pelle. Il treno partì con il suo rumore secco, tac-tum, tac-tum, tac-tum, come un cuore meccanico che batteva al posto dei loro. Bruce fissava i passeggeri: studenti, impiegati stanchi, un senzatetto che odorava di alcool. Ogni volto era un battito, ogni battito un potenziale loop. Alison inspirò profondamente, come se potesse assaporare già l’aroma ferroso che sarebbe arrivato. La sete bruciava: saliva dalle ossa, si insinuava nella bocca, tendeva le mani verso qualsiasi carne pulsante di vita. Tac-tum. Tac-tum. Tac-tum. Il tunnel intorno al treno iniziò a piegarsi. Nessuno lo notò, tranne loro due. Le luci tremolarono, ma non era il solito guasto della metropolitana: era la realtà che si deformava. I riflessi nei finestrini cominciarono a duplicarsi. Le persone vedevano se stesse una sola volta; Alison e Bruce le vedevano centinaia di volte, come se ogni corpo fosse frantumato in infinite possibilità. Un ragazzo con le cuffie alzò lo sguardo, confuso. Vide la sua immagine nel vetro davanti a sé, ma dietro quella immagine c’era un’altra versione di lui, più vecchia, con il volto scarnito, e ancora un’altra, con la gola squarciata, e un’altra ancora, piegata in un urlo silenzioso. «Che diavolo…» mormorò, togliendosi le cuffie. Era già dentro il loop. Alison sorrise, le labbra sottili che si piegavano in un arco crudele. Si mosse come un’ombra, attraversando il vagone con un passo che sembrava normale e invece era un salto di spazio. Afferrò il ragazzo per il collo. Lui tent
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