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In una breve vacanza in un’isola greca, ho avuto modo di leggere e di gustare un libro tra i più belli apparsi nel panorama letterario degli ultimi anni: Sacrificio, di Andrea Carraro. Intorno al nucleo centrale della narrazione: l’amore assoluto e il dolore disperato di un padre per la figlia persa negli abissi della droga, si incastra mirabilmente una pluralità di motivi e di personaggi generati da ricordi, nostalgie ( struggenti o gioiose della giovinezza), sogni, incubi, paurose allucinazioni fino a una sorta di terribile smarrimento nella fede morbosa e nella mala fede… Ma quello che è veramente entusiasmante è la prosa di Andrea Carraro, che lo rende forse il più grande scrittore italiano del nostro tempo: moderna, specialmente nel ritmo decisamente cinematografico, tesa alla narrazione senza fronzoli e “decorativismi”e, nello stesso tempo, suggestiva ed elegante. In realtà è difficile sottrarsi al fascino di una scrittura modellata con il sapiente dosaggio linguistico da un autore che affronta con coraggio temi assai complessi e che toccano la psicologia del profondo, la religione e la deriva brutale della realtà che stiamo vivendo.
Recensioni
Giorgio, il protagonista dell’ultimo romanzo di Andrea Carraro, Sacrificio (Castelvecchi), è un editore romano per molti versi frutto emblematico dei suoi tempi. Ha raggiunto la mezza età con discreti successi lavorativi e una famiglia polverizzata alle spalle: accanto a lui non c’è più la moglie – ancora amata malgrado le tante tempeste attraversate, a cui offre goffi tentativi di riallaccio del loro rapporto nei momenti di cedimento a una debolezza che lo morde, saltuaria e ingestibile – ma c’è la figlia Carolina, ventenne, anima perduta nell’eroina. Ruota sui ripetuti sforzi del padre di trascinare la ragazza fuori dal proprio baratro, la trama di Sacrificio. Pare essere l’amore purissimo per lei a spingerlo a farsi imitazione di Cristo, a chiedere a un Dio distratto e assente di porla in salvo strappandola alla dipendenza. Per riuscire nel suo intento, Giorgio si caricherà dei peccati della ragazza e andrà a espiarli percorrendo letteralmente il suo stesso cammino nelle aree dello spaccio, ricalcandone il percorso di caduta e facendosi eroinomane a sua volta finendo con l’acquistare le dosi dagli stessi spacciatori che hanno irretito Carolina. Deciderà di accogliere deliberatamente come un’ostia il peccato della figlia, di caricarselo sulle spalle come il Cireneo, di sacrificarsi (da cui il titolo secco, pieno) – fino a conseguenze che qui non vanno dette – per liberare e salvare il vero unico amore della sua vita.
Potrebbe farsi exemplum, questo personaggio, di sola luminosa purezza di intenti: ma Carraro, in questo che è forse il suo romanzo migliore, raddensa le trame, complica magistralmente intenti e motivazioni sottese, sporca – rendendole straordinariamente umane – le intenzioni. Vero è che l’amore paterno è immenso e capace di tutto, ma quanta parte di colpa c’è nell’aver esposto la figlia ancora bambina a una familiarità involontaria con gli stupefacenti? È Carolina a trovare un panetto di hashish nascosto malamente in casa, a notare e assorbire l’atteggiamento aperto, disinvolto e incurante, di non condanna, nell’uso paterno di sostanze illecite. È sempre lei a guardare con occhi ancora per poco innocenti i genitori portare avanti le loro vite sulle note di una colonna sonora citata a più riprese nel romanzo, Heroin dei Velvet Underground & Nico, richiamata più volte e volutamente tradotta dall’autore, basso continuo delle pagine del libro.
Il sacrificio di Giorgio porta dunque con sé una parte di colpa: l’espiazione assume tono e colore di un’autoassoluzione, un tentativo di riparare oltre a quelle degli altri anche – soprattutto forse – le proprie colpe.
Nella disperazione della ricerca di salvezza, Giorgio si rivolgerà al visibile e all’invisibile: Carraro, ottimo da sempre come scrittore realista piega lingua e immaginario alla visionarietà. Il protagonista del romanzo azzarda un dialogo con la Madonna (abbozzato, Giorgio è cristiano e si rivolge dapprima al lecito, all’atteso), uno con Dio e i suoi rappresentanti in terra. Non troverà né risposte, né difesa e alla fine capitolerà alle lusinghe di una figura che lo corteggia e blandisce, Calibano, un demone di marca shakesperiana (tra i tanti riferimenti colti scivolati senza dolore dentro la trama) accessibile, vicino, riparatore, frutto forse solo di immaginazione, dei farmaci che Giorgio assume, chissà. Con Calibano Giorgio intesse un dialogo a cui Carraro dà i toni dell’indefinito, tra il sogno (l’incubo, piuttosto) e il risveglio che induce il protagonista – e il lettore – a domandarsi quanto ci sia di immaginato, quando ci sia di visionario, dove e perché si sia perso ogni ancoraggio anche linguistico alla realtà. Una piega stilistica inattesa nel realista Andrea Carraro, molto riuscita.
Al di là della storia, con pagine di perfetta descrizione di quartieri romani in pagine attente, calibrate e vivide, e occhio acutissimo sul dettaglio anche nei personaggi minori -amici, colleghi- che ruotano attorno al protagonista, la parte più interessante rimane infine il tessuto del narrato che si adatta docile ai momenti di riflessione più intima di padre in fieri parallela al dis-farsi della figlia, in una sorta di partita doppia di romanzo di formazione e distruzione. Con la fine accortezza da parte di Carraro di non limitarsi manicheicamente alla sola formazione per il padre, ma di instillare anche in lui l’ombra del disfacimento nelle pieghe di uomo corrotto, nei guasti della sua vita: un’ultima sottigliezza che va ad arricchire questo già ottimo romanzo.
Recensione di Anna Vallarugo
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