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Salvemini e il Medioevo. Storici italiani fra Otto e Novecento - Enrico Artifoni - copertina
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1990
1 gennaio 1990
272 p.
9788820719227

Voce della critica


recensione di Raveggi, S., L'Indice 1991, n. 5

L'impegno di Gaetano Salvemini come storico del medioevo dura poco più di un decennio, dai primi cimenti di recensore che risalgono al 1892, quando era ancora studente, al 1903; poi, come scriverà Sestan, "i suoi pensieri, le sue passioni sono tutte altrove". Ma è un decennio nel quale ha modo di fornire alla medievistica italiana il fondamentale "Magnati e popolani" (1899, considerato in assoluto la sua migliore opera di storia), due altri volumi di valore, e ancora l'edizione del "Liber de regimine civitatum" di Giovanni da Viterbo e vari interventi di recensore nei quali non di rado all'informazione e all'erudizione aggiungeva illuminanti considerazioni personali.
Su Salvemini medievista ha scritto ora un libro assai buono Enrico Artifoni, del cui intento il sottotitolo rende più piena informazione. In esso infatti non troviamo tanto una puntuale esegesi della produzione medievistica salveminiana - già oggetto di un appassionato dibattito, antico e recente, a prova dell'interesse che ha saputo suscitare -, n‚ una biografia individuale del personaggio. La biografia è piuttosto collettiva, e si propone di delineare "un tratto dello sviluppo storiografico italiano che coinvolse molti protagonisti (non tutti storici), molte istituzioni, riviste, discipline, scelte politiche". In questa prospettiva, tesa a offrire una chiave di lettura per vari versi nuova di quell'indirizzo di studi storici che si suole crocianamente definire "scuola economico-giuridica", Artifoni ha scelto un modo di procedere "che si potrebbe definire di prosopografia intellettuale, tale da fare spazio alle questioni dell'organizzazione concreta degli studi storici, al tono culturale che animava i centri della ricerca, alle genealogie scientifiche". Un libro denso di fatti, di personaggi e di riflessioni che rappresenterà, credo, un punto di riferimento per la conoscenza della storiografia italiana di fine secolo.
L'indirizzo detto economico-giuridico ebbe vita non più lunga di un decennio (si può correttamente farla iniziare dall'edizione di "Magnati e popolani"); scelse come ambito privilegiato di indagine la storia del medioevo comunale, soprattutto nei suoi aspetti politico-sociali; contò tra i suoi adepti una generazione di giovani che si era in larga maggioranza formata in due sedi, l'Istituto di Studi Superiori di Firenze e la Normale di Pisa. Salvemini e Volpe ne furono i più illustri esponenti, ma devono essere almeno annoverati anche Caggese, Arias, il "bolognese" Rodolico e il padovano Luzzatto.
Ciò premesso occorre chiedersi perché proprio in quel tempo e in quei luoghi avvenne una così feconda germinazione d'ingegni. E qui entriamo nel vivo del teorema di Artifoni: ciò che questi giovani, e Salvemini per primo, studiano e scrivono è sicuramente innovativo, ma a ben vedere n‚ estraneo n‚ in polemica con l'ambiente nel quale si sono formati. Molte delle pulsioni culturali che spingeranno questi allievi a un nuovo modo di fare storia sono riconoscibili, esplicite o 'in nuce', nell'opera dei loro maestri. In Pasquale Villari (che aveva voluto l'Istituto fiorentino e la Normale pisana quali avamposti nella costruzione di quadri intellettuali per l'Italia unita), in quel Villari che ne "I primi due secoli della Storia di Firenze" creò, come ricorderà Salvemini, "quasi dal niente la storia politica e sociale del comune di Firenze", storico in parte ancora con suggestioni risorgimentali, ma positivisticamente convinto di trovare nella storia fiorentina "una successione e connessione matematica di cause ed effetti", assertore dell'importanza di uno studio sistematico del diritto medievale e già attento agli aspetti economici che determinano le vicende politiche in una repubblica di mercanti. Ma se il Villari ha su tutti la preminenza non va disconosciuto il ruolo di numerosi altri.
Artifoni ricostruisce quel clima culturale, aggiungendo al già noto numerose altre tessere, aiutato dalle pagine autobiografiche di Salvemini e dei suoi condiscepoli, dai fitti rapporti epistolari, e anche da altre fonti sparse, come brani di un mediocre romanzo di Carlo Placci oppure annuari e orari universitari dell'ultimo decennio dell'Ottocento. Ecco così Cesare. Paoli, valente paleografo e apprezzabile storico, consigliere di Villari e primo estimatore del giovane Salvemini; Alberto Del Vecchio, figura di minor limpidezza e caratura scientifica ma certo utile docente di storia giuridica e costituzionale; Felice Tocco e Pio Rajna; e al di fuori della struttura accademica, Isidoro Del Lungo, piagnone, sacerdote del culto di Dante, rivendicatore vittorioso dell'autenticità di Dino Compagni, tanto diverso per età, formazione e idealità da Salvemini, eppure personaggio verso il quale, a ragione, il giovane storico fece tributo di riconoscenza e fu ricambiato con attestazioni di stima che non paiono formali. Un mondo che Salvemini ricordò sempre con gratitudine; e le molteplici occasioni di relazioni culturali che allora offriva una Firenze tutt'altro che provinciale sembrano in effetti notevoli a chi quei personaggi frequenta oggi nelle bibliografie.
Il primo Salvemini - quello, per intenderci, fino al 1895 - deve quasi tutto all'ambiente universitario fiorentino; se vogliamo, anche i suoi primi approcci col marxismo, oggetto di fervide discussioni con i compagni di università, nella casa della Bittanti in via Lungo il Mugnone. Poi, come molti giovani studiosi della sua generazione (ma non Volpe) è attratto dalla sociologia, particolarmente per la folgorante fascinazione subita dalle opere di Achille Loria, allora in grande auge. Il rapporto di Salvemini con Loria, che già in un precedente contributo Artifoni aveva avuto il merito di evidenziare, è breve - e poi disconosciuto - ma importante, perché si situa nel periodo dell'elaborazione di "Magnati e popolani"; cosicché tre risultano i principali sedimenti culturali dell'opera: "al livello di base, la tecnica e la dottrina non disattenta ai fatti sociali della Scuola di paleografia di Paoli e dell'erudizione fiorentina; a un livello superiore, le determinazioni 'conflittuali' ed economico-sociali di Villari che senza frizioni, attraverso la cerniera di una concezione scientista della disciplina storica, portano infine al livello loriano". Per Artifoni di marxismo e di materialismo storico di derivazione labrioliana c'è dunque in "Magnati e popolani" poca traccia. Ed è a suo modo significativo il coro di unanimi consensi che salutarono il libro, dalla commissione dell'Accademia dei Lincei a Leonida Bissolati: in quell'opera oggettivamente di grande valore ognuno tendeva a trovarvi ciò che risultava più gradito per le proprie concezioni.
Ben meno fortunata fu invece negli anni seguenti la carriera accademica di Salvemini, a prova della reale scomodità del personaggio per un certo 'establishment'. A quei torti Salvemini reagiva in maniera colorita e sanguigna, e va detto che continuava comunque a godere del riconoscimento di migliore da parte degli storici della sua generazione. In questo contesto, sul finire del 1905 Volpe, che gli era stato preferito nel concorso per la cattedra di Milano, arrivava a scrivergli che se ne doleva; e cosa comunque più importante, in quella stessa circostanza si faceva latore della proposta del proprio maestro Crivellucci di "rianimare" la rivista "Studi Storici" cooptando nella direzione Volpe e Salvemini, indirizzandola verso quelle tematiche di storia economica, giuridica e istituzionale che costituivano il campo prescelto dalla giovane medievistica: nelle intenzioni avrebbero dovuto collaborarvi tutti i più rappresentativi appartenenti a quell'indirizzo, da Rodolico a Caggese, Solmi, Luzzatto, Roberti, Romano, Tamassia fino, forse, ad Arias. Secondo Artifoni il progetto segna "il più cosciente tentativo di autoriconoscimento e di unificazione organizzativa" di questa scuola. Il progetto in effetti piacque a Salvemini, attratto anche dalla prospettiva che la rivista dovesse essere soprattutto destinata ad un pubblico colto ma esterno all'angusto ambito accademico. Eppure quel genere di rivista non vide mai la luce; tra le varie cause, va probabilmente attribuita la maggiore responsabilità allo stesso Volpe, che negli anni immediatamente seguenti passò in rassegna con una serie di recensioni severe e talvolta brillantemente spietate la produzione dei giovani colleghi già previsti come collaboratori, assolvendo con qualche riserva Rodolico e condannando duramente Arias e Caggese, colpevoli di non svincolarsi, anzi di accentuare i toni di quello scientismo positivista presupponente e generico da Volpe giudicato ormai inaccettabile. Salvemini questa volta non scese in campo. Può darsi che in qualche modo concordasse con il censore, cominciando egli stesso ad avere qualche dubbio sulla piena tenuta delle chiavi di volta della sua stessa produzione.
Dunque, sfiorata la meta di una sede istituzionale che in un certo senso ne avrebbe garantito la consacrazione, quel gruppo di storici e giuristi che - pur nella diversità delle inclinazioni e delle intrinseche capacità - si erano considerati sodali decideva che le strade da percorrere non erano più comuni e l'esperienza doveva di fatto considerarsi conclusa.

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