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recensione di Pent, S., L'Indice 1993, n. 1
L'aggancio alla realtà di molti dei giovani narratori italiani sembra gravitare volutamente nei bassifondi di esistenze provvisorie o comunque fittizie, decadenti. Il futuro appare sbarrato dalle soffocanti costrizioni di un presente vissuto come una perenne crisi di rigetto. Gli spiragli di fiducia nei confronti del tessuto sociale paiono utopie fuori moda.
Parabola del male come vizio psicologico, tuffo nella vacuità sotterranea di una gioventù bombardata dai decibel delle discoteche, tra droga, alcol e sesso occasionale, anche il nuovo lavoro di Fortunato - dopo i bei racconti d'esordio "Luoghi naturali" e il romanzo "Il primo cielo" - penetra nei meandri di certa desolazione contemporanea. La scelta di una trama "gialla" sulla quale innescare la carica negativa che contraddistingue i personaggi-ombra della storia è - se non originale - scaltra, e serve a sgravare la narrazione da quell'alone claustrofobico derivante dalla sventagliata di casi clinici da manuale che la popolano. La sanguinosa morte di Marco Ferri nella toilette della discoteca Kinki in una notte di Capodanno sembra trovare fin dall'esordio il suo artefice in Luigi Mattei, visto da numerosi testimoni in procinto di "adescare" la vittima. Il processo verifica la colpevolezza del giovane e la condanna che ne segue risulta il più ovvio dei dati di fatto. Ma, come esordisce l'io narrante, "non è mai stato chiaro come andarono le cose". Mattei fu visto fuggire dal Kinki, la perizia l'ha definito "psicologicamente" colpevole, ma l'io narrante - un oscuro cronista di nera - sembra convinto del contrario. E anche il lettore, proseguendo nel racconto, tende ad avvalorarne i dubbi. Dopo una prima parte tracciata come un freddo resoconto degli avvenimenti, è infatti proprio la figura annebbiata del narrante a prender consistenza, con le sue manie, gli eccessi alcolici, l'oscuro istinto violento, le inspiegabili contraddizioni. Perché, ad un certo punto, il cronista crede di aver ucciso Ron - il ragazzo conosciuto in un bar - come in un'assurda replica del delitto Ferri? Dove finiscono le ossessioni di cui è preda e dove invece la realtà si sforza di far luce su fatti sempre più oscuri?
Luigi Mattei si uccide in carcere, la storia si accende di nuovi sviluppi, un dubbio si insinua anche nel lettore: è stato il vero assassino di Ferri a tenerci per mano fino a questo punto, in una personale, adulterata versione dei fatti? Ma la verità, come sempre, possiede mille sfaccettature: ciò che appare non sempre è lo specchio della realtà e, dopotutto, quante sfumature occorrono per raggiungere una stessa verità valida in assoluto?
Al termine del libro ci si rende conto di come non è tanto la "soluzione" del caso a interessare l'autore, guanto l'aver accompagnato il lettore in una passeggiata tenebrosa - chissà perché, ma è netta l'impressione di gravitare in un panorama di costante penombra - nei meandri di una realtà malsana e votata sovente all'autodistruzione. Spetta al lettore stabilire i confini della provocazione e decidere dove invece la provocazione risulta nient'altro che lo specchio di tanti dei nostri precari oggi.
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