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Poeta romano che ha esordito negli anni settanta, Carlo Bordini è notato tempestivamente da Enzo Siciliano, poi schedatoda Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli nell'antologia Il pubblico della poesia (Lerici, 1975; Castelvecchi, 2004), e da ultimo accolto dallo stesso Berardinelli nell'explicit del suo panorama della poesia italiana fine Novecento (ora in Casi critici, Quodlibet, 2007; cfr. "L'Indice", 2008, n. 4) insieme a Renzo Paris ed Elio Pecora. I tre, secondo il critico, "si distinguono nettamente dai milanesi cresciuti tra l'eredità di Sereni e la guida di Raboni (…). Fin dall'inizio totalmente immersi nel clima culturale romano (…) sono però riapparsi negli anni novanta con nuovi libri o con la raccolta in un unico volume di tutte le loro poesie: permettendoci di vedere che cosa, nei dieci, quindici anni precedenti, era passato quasi inosservato". Dopo Polvere (Empirìa, 1999) e Pericolo (Manni, 2004), riecco Bordini con Sasso, edito nella nuova collana "Prosa e Poesia" diretta da Berardinelli, il quale, si è capito, lo considera poeta per i nostri tempi (anche in prosa: Manuale di autodistruzione, Fazi, 1998; Pezzi di ricambio, Empirìa, 2003; Gustavo. Una malattia mentale, Avagliano, 2006).
Della poesia di Bordini si può provare una prima definizione partendo proprio dai titoli e magari aggiungendone altri: Strana categoria (1975); Poesie leggere (Barbablu, 1981); Strategia (Savelli, 1981); Mangiare (Empirìa, 1995). In ognuno di essi si coglie un fine pratico e malfermo che non ha niente del comfort poetico e filosofico. La scrittura sottilmente feroce di Bordini declina piuttosto, con ironica svagata cautela, la paranoia: vi si riconoscono i dintorni dell'eccesso di pensiero e il portato della solitudine psichica, autogena a scopi autodistruttivi come prescrive il Manuale citato. Tuttavia, dietro tanto scialo d'io, non è difficile scoprire la storia di una generazione (anche più di una: giovani che vissero i sessanta, i settanta, i primi ottanta), così che Bordini risulta potente poeta-narratore dimesso e dimezzato, dallo stile spoglio, minimo. In una nota a Sasso, dice di amare "i versi lunghi, enfatici, a volte prosastici, o molto spesso sonnambuli e dormienti". Va bene, se si aggiunge che la lingua di Bordini non indossa abiti letterari: è lingua d'uso, quotidiana, che modella uno straordinario idioletto a bassissima temperatura espressionistica.
Lo scrittore "lavora soprattutto per sottrazione e ripetizione" (Berardinelli), e sviluppando tale traccia, credo che per questa ultima raccolta si possa parlare di poetica delle varianti. Parafrasando Croce, che chiamava critica degli scartafacci la variantistica, direi, però con ammirazione piena, che Sasso è fondato su una poetica degli scartafacci, in cui le varianti indicano i perimetri mentali possibili, i piccoli scarti che si rivelano, invece, enormi e conoscitivi (come Bordini spiega nell'articolo posto in appendice, Poesia, l'unica che dica la verità). Si prendano i quattro pezzi dall'identico titolo Poesia derivante dall'osservazione di taluni moribondi della mia famiglia che costituiscono la sezione Varianti di una poesia, i quali a parte la lettura che chiarirà i movimenti interni, non mi pare occorrano d'altro, a sostegno di ciò che vado argomentando; o due delle poesie intitolate Vecchio, tra le cinque dallo stesso titolo che fanno parte della sezione omonima. La prima recita: "Il vecchio sa che finirà nel gran mare dell'essere / tutto quello che ha fatto finirà / nel gran mare dell'essere // il vecchio può fare molte esperienze / come i giovani // il vecchio ha orrore della sua condizione // oggi ho ucciso una trentina di formiche". L'altra versione, cassata la seconda strofa e arretrati gli ultimi due versi, chiude con "il vecchio è capace di provare piacere".
I temi che circolano in Sasso mi ricordano quelli dei moralisti classici (fissati in una celebre antologia da Giovanni Macchia; cfr. "L'Indice", 1989, n. 5), cioè quegli scrittori che tra Cinque e Seicento esplorarono l'essere umano con acume irripetibile. Per esempio, la citata sezione Vecchio fa pensare a Del ritiro di La Rochefoucauld, mentre l'apologo Fare di questo ("L'idea dell'uccidere per finire una cosa"), con protagonista il cane Bione e le donne S. e G., evoca certe risoluzioni machiavelliche ("machiavellismo fragile", ancora dal Manuale di autodistruzione). Giovanni Macchia cade in taglio, quando avverte nella sua introduzione che "il moralista (…) può non essere un creatore o un massacratore di sistemi filosofici (egli che non ha del filosofo la serena distanza mentale), ma è certamente un massacratore di miti. Lì è il suo coraggio e la sua ragione. Il moralista non si applica, con furore simmetrico, alla costruzione di un mondo di pensiero: si limita a notare la contraddittorietà dell'esistere, le luci e le ombre di tutto ciò che ha sotto gli occhi".
Per concludere, scelgo Montaigne: "I segni della mia pittura sono sempre fedeli, benché cambino e varino. Il mondo non è che una continua altalena" (Del pentirsi). Carlo Bordini non somiglia a un moralista classico contemporaneo? a uno spietato, irriducibilmente ironico cronista del vero?
Francesco Ignazio Pontorno
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