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Chi rifiuta di dire i fatti dell’io nella forma del diario semplice, e li trasforma in un percorso di simbiosi e scambi – compreso il cane «in fin di vita» e «salvatore» (p. 13), e «l’asino grigio, che chiamo uomo-fratello» (p. 51) –, conosce la presenza della vita degli altri (il cane, l’asino, i genitori, il pescivendolo) e della non-vita nel corpo della propria vita. La depressione e la morte (pp. 36, 44, 62) lo ricordano: sulla terra non c’è un io solo e non c’è solo l’io sano; così la presenza degli altri non è freddamente allegorica, ma corale «nell’atto di comunicare» (p. 42). L’istituzione di una scrittura loro («ragnatela di fili ghiacciati»: p. 58), e non solo mia, è parallela alla scoperta dell’incontrollabilità e della non linearità della vita: in cui nulla è, propriamente, perfetto. Oggi questa consapevolezza è di molti: e riguarda zone superiori alla dicotomia, di per sé oziosa e quasi diabolica, tra trobar clus e trobar leu. Per esempio: quando Pianzola dichiara che il cancello è minore della stanza chiusa (p. 60) non tende tanto ad allegorizzare l’atto privato della scrittura, quanto ad esaltare la meditazione (autoironicamente: «rimuginare», p. 77) sulla morte e sull’amore, in forme diverse da qualsiasi legame quotidiano e sociale. La stanza chiusa è, più di tutto, la mente che si prepara ad un «grido beato / di voce amorosa» (p. 46) e ad «assembrare […] un codice / di maiuscole e trattini» (p. 15).E’ chiaro che bisogna negare al pubblico l’elaborazione individuale e preartistica di ciò che importa: per darne, sùbito dopo, il risultato in forma di parole certe, «parole disposte, una conservazione lecita» (p. 20). Dire è la salvezza, non solo spirituale, se «il canto» può accendere le guance «e i polsi colora» (p. 18): è quasi impossibile credere il contrario, quando la laicità si distingue dal teismo solo per la mancanza di una teleologia, e non per la mancanza della pietà, dentro (p. 51).
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