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La scienza in Tv. Dalla divulgazione alla comunicazione scientifica pubblica
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1995
31 ottobre 1995
231 p.
9788839709387

Voce della critica

CANNAVò, LEONARDO (A CURA DI), La scienza in TV

LASAGNI, MARIA CRISTINA / RICHERI, GIUSEPPE, Televisione e qualità
recensione di Alleva, En.- Tozzi, M., L'Indice 1997, n. 6

Ci si può domandare se filtrare "scienza" attraverso la televisione perché arrivi a un pubblico a essa generalmente estraneo comporti un costo accettabile in termini di rigore scientifico oppure no. La risposta degli autori de "La scienza in TV" è dubitativamente affermativa e poggia sugli assunti ben identificati e sviscerati nei diversi saggi che compongono la stretta trama concettuale del volume. Il rischio c'è - ovviamente - ed è grosso: con l'abbandono progressivo dell'intento pedagogico il "senso scientifico" tende a collimare sempre più facilmente con il "senso comune", come dimostra il contemporaneo abbandono dell'esperto-conduttore a favore del conduttore di provenienza extra-scientifica. In contesti di questo tipo c'è il pericolo di un "ripiegamento" negativo della scienza su se stessa, una chiusura che non permette un accrescimento delle conoscenze e che, d'altro canto, non induce neppure una maggiore spendibilità quotidiana delle informazioni scientifiche.
Saremmo cioè alle solite: la divulgazione che diventa intrattenimento televisivo a discapito dei suoi stessi scopi (ma sono mai stati ben definiti e/o ha un senso farlo?) non incrementa la cultura scientifica - in questo paese cronicamente latitante - e, anzi, si traduce nel sacrificio della scienza sull'altare del dio barbaro dell'"audience" a ogni costo. Ma, d'altra parte, è giusto lasciare lo spettatore senza quei dubbi, quei veri e propri errori che stanno alle spalle di molte affermazioni scientifiche, legandolo a meccanismi di causalità lineari in grado di attrarre maggiore interesse dei problemi di fondo? La versione cinematografica del giurassico crichtoniano, con le annesse ricadute televisive, ha portato comunque vantaggi in termini di divulgazione, al di là del richiamo spettacolare e della rappresentazione drammatica e largamente inesatta dell'estinzione dei dinosauri. D'altra parte il pubblico delle trasmissioni scientifiche televisive è composito, fatto anche di giovani colti o almeno curiosi, di esperti di settori affini (o distanti), di potenziali lettori di libri a carattere scientifico non necessariamente divulgativo, pubblico che non dovrebbe essere privato neanche di quelle spiegazioni circostanziate che meritano certe eccezioni alla "regola" difficili da spiegare anche per gli stessi scienziati.
Potrebbe però esistere una terza via tra l'eccessiva semplificazione che produce deterioramento del patrimonio di conoscenza scientifica e la divulgazione astrusa che serve solo a comunicare fra esperti, non aumenta la base di pubblico e di interesse e non produce nessuno sviluppo culturale diffuso. Si può recuperare - "pariterque monendo" - l'eguaglianza informazione-intrattenimento che, si dimostra nel libro, produce i risultati migliori in termini di divulgazione, allargamento della fascia di pubblico interessata e gradimento. Non mettere in difficoltà chi ascolta la scienza divulgata e insieme esprimere il "senso comune" può essere fatto anche senza quell'arroccamento della scienza, a cui pure tante volte si è assistito. Soprattutto quando l'obiettivo non è quello di formare degli esperti scienziati, ma quello - peraltro non meno difficile - di fornire chiavi di accesso ai principi base, aggiornare le conoscenze e suscitare un interesse anche in chi, in quella data fascia oraria, avrebbe guardato "telenovelas" o "chat-shows".
Qualcuno comincia di nuovo a pensare che la divulgazione scientifica debba ritornare a essere compito dei ricercatori e degli scienziati - magari in squadra con giornalisti del settore - e, anzi, dei migliori fra loro, che non sempre sono gli stessi che meglio fanno ricerca o didattica in aula. Che in televisione o alla radio (per i libri è un altro discorso?) ci vada chi lo sa fare, alla fine lo decide anche il pubblico (ahimè, l'"audience", senza scomodare Popper, per carità). Come messo ampiamente in luce da Cannavò nel primo saggio, andrebbe superata la disaffezione dei ricercatori per i media, anche quando è causata da una giustificata diffidenza verso l'ultrasemplificazione: che questa non venga lasciata solo al vecchio professore ordinario in declino di idee e energie, ma che faccia parte del compito dei giovani, quando sono in grado di evitare pericolosi cortocircuiti comunicativi autoreferenziali. Solo così si potrebbe forse smaltire l'eccesso di metafore e analogie che caratterizza la divulgazione del sapere scientifico da parte della maggioranza dei giornalisti: ci sono storie da raccontare invece di aneddoti e non c'è bisogno di ricorrere a emozioni forti per accendere l'attenzione. Per inciso, sembra che solo in Italia la televisione possa conferire un successo personale anche a chi non abbia (o non riesca a ottenere) riconoscimenti accademici ufficiali, e non si traduca - come altrove - in una specie di cimitero per pachidermi sul viale del tramonto. Con le debite eccezioni, soprattutto anglosassoni, di eminenti scienziati che della divulgazione non hanno fatto un lavoro vero e proprio, ma magari una fase divertente e stimolante della loro vita professionale. Se la televisione è televisione e non un suono addizionato ad alcune immagini in sequenza, allora per destare interesse - quello che solo mantiene alta l'attenzione - bisogna utilizzare linguaggi televisivi, anche attraverso una personalizzazione dei contesti espositivi, che, si evince dalla lunga sequenza di programmi analizzati nel libro (da "Telescuola" al "Dse" e da "Sapere" a "Quark"), ancora sembra funzionare.
Se l'allunaggio del 1969 commentato in diretta da Tito Stagno viene considerato lo spartiacque nella divulgazione scientifica televisiva, la tragedia di Vermicino (1981) e la deviazione della colata di lava dell'Etna del 1983 segnano un cambiamento comunque significativo: ci sarà sempre meno scienza e spesso verrà ridotta a puro oggetto di spettacolo a sfondo cronachistico. La scienza "normale" non sembra interessare e l'unica informazione che si dà deve essere chiaramente indirizzata verso settori di pubblico nettamente caratterizzati. In questa prospettiva miope anche il programma scientifico di punta ("Quark") passa dagli oltre 7 milioni di spettatori degli inizi (1981) ai quasi 5 milioni del 1995.
La divulgazione scientifica - sostiene Cannavò - arriva a influenzare le traiettorie cognitive degli specialisti e, per quanto possa sembrare paradossale, anche la loro produzione. Si può cioè riscattare la scarsa considerazione di cui gode lo scienziato-divulgatore fra i suoi colleghi, anche perché far passare le idee semplici su cui si basa la scienza senza impoverirle o sovrasemplificarle è obiettivo tutt'altro che facile. An-che nella caccia senza quartiere allo "share" di un pubblico sempre più vasto c'è "cattiva" comunicazione e "buona" comunicazione, possibile protagonista quest'ultima della costruzione di una mentalità scientifica di massa (se il termine è ancora consentito).
D'altro canto la qualità televisiva è comunque un concetto di difficile definizione, come viene lucidamente segnalato da Lasagni e Richeri nel loro "Televisione e qualità", la cui lettura integrata con "La scienza in TV" permette una visione di notevole efficacia e completezza. Ma quali sono i fattori che definiscono la qualità? Sembra che la "diversità" sia uno dei più importanti, come elemento oggettivo che riguarda sia la sostanza che lo stile (a proposito, ma davvero si riesce a "divertire" solo attraverso espressioni stilisticamente di basso grado?) e che essa si accresca - e di molto - quando non c'è accordo fra i "networks", cosa che produce una sostanziale omogeneità, ma solo quando c'è un disaccordo anche violento che produce sperimentazione e ricerca della diversità. La diversità come fattore di qualità - peraltro verificata ogni volta che la comparsa di un nuovo canale o di un programma veramente nuovo costringeva tutti gli altri a ricercare una diversa caratterizzazione - dunque, come parametro di riconoscimento da ricercare anche quando i programmi sono molto seguiti e la rete va a gonfie vele, se si vuole veramente tracciare un solco.
L'obbligo di sperimentare dunque può - non è detto che debba - produrre una televisione di qualità, nei limiti del possibile, ed evita la distrazione del pubblico, nemica micidiale dell'intrattenimento-divulgazione non solo scientifico, senza per questo andare a discapito della qualità. Un atteggiamento snobistico di fronte all'auditel, pure debitamente argomentato, non aiuta la crescita di una televisione di qualità, a meno che non la si voglia relegare nei pascoli ben recintati dei programmi notturni. A ciò va necessariamente aggiunto che la televisione è ormai un sistema autoreferenziale complesso in cui una variazione seppure minima di parametri apparentemente insignificanti può provocare conseguenze imprevedibili in termini di ascolto: come spiegare altrimenti il successo di programmi di scarsissimo respiro e il "flop" di produzioni di qualità?
Ovviamente diverso è il discorso per le reti commerciali che non vogliono assolvere anche compiti di servizio, come è ben testimoniato dai diversi programmi di divulgazione scientifica offerti - per esempio - da Fininvest, negli stessi anni in cui il "format" Rai in materia prevedeva qualcosa come "Quark". In ogni caso fanno bene gli autori a sottolineare come l'"audience" non dia comunque indicazioni su ciò che gli spettatori ritengono di qualità e che la valutazione di un programma mette in conto anche l'impatto, il gradimento, la piacevolezza e la consuetudine. Drammatizzazione dei contesti scientifici, superamento di un linguaggio gergale anche attraverso l'uso estensivo dell'animazione, maggiore caratterizzazione e separazione dei ruoli dell'esperto e del conduttore e maggiore importanza del filmato tematico di qualità da commentare in studio: potrebbero essere queste le basi per evitare che la buona divulgazione resti una missione impossibile.

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