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recensione di Pogliano, C., L'Indice 1998, n. 9
Isabelle Stengers, docente di filosofia delle scienze all'Université Libre di Bruxelles, è familiare al pubblico italiano soprattutto per una fortunata "Nuova alleanza" (Einaudi, 1993) che nel 1981 l'associò al nome del premio Nobel Ilya Prigogine, ma anche per un ciclo di lezioni napoletane poi uscite col titolo "Le politiche della ragione" (Laterza, 1993).
L'ambito nel quale si muove da allora la sua riflessione riguarda caratteri e stili operativi dell'impresa scientifica contemporanea, concepita meno come fabbrica di verità universali che come avventura suscettibile d'essere sottoposta a un vaglio critico non indulgente. In linea con quell'orientamento, ora Isabelle Stengers prende avvio dal principio d'autorità di cui sembra non di rado farsi forte una Scienza maiuscola e invasiva. Con la sua arrogante pretesa di dire "ciò che è", e definendosi come antitesi del desiderio e dell'illusione, ovvero di un'Opinione arbitraria e inaffidabile, siffatto genere di Scienza non può che risultare fastidioso e ostile al sentire comune.
Sorprendente paradosso, si potrebbe aggiungere, quello di una pratica che, dopo aver lottato a lungo contro ogni principio d'autorità, se ne autoinveste e legifera sul vero e sul falso, sul bene e sul male. Nondimeno, ad ascoltare i discorsi di certi "esperti", o le lezioni di certi professori, la Scienza questo sarebbe e così agirebbe: opportunamente, Stengers giudica caricaturale l'immagine che in tal modo ne viene difesa, e tenta di disegnarne un'altra, grazie alla quale non sia sacrificata la passione dell'inventare propria degli scienziati. Pertanto il suo invito è a "cambiare prospettiva", a congedare anzitutto la Scienza maiuscola e singolare, e ad assumere invece come oggetto d'esame una pluralità di scienze che s'occuperebbero di livelli di realtà fra loro assai diversi, connessi a problematiche altrettanto varie e multiformi.
Buona mossa, quella d'abbandonare il singolare per un plurale che relativizza, ridimensiona e demitizza. Ci sono allora "tante" scienze, che con la società (e con poteri anch'essi plurali) intrattengono rapporti differenziati, e a ciascuna s'attaglia un peculiare criterio di prova. L'autrice le vede operare sullo sfondo del "laboratorio", ma inteso in un senso generale, che si tratti del piano inclinato di Galileo oppure del luogo dove Pasteur sbaragliò l'ipotesi della generazione spontanea e dimostrò l'esistenza di microrganismi più o meno patogeni. In entrambi i casi l'accento cade sull'affinità tra "sperimentale" e "artificiale": il potere inventivo del laboratorio consisterebbe nel "mettere in scena" un fenomeno in modo da trasformarlo in argomento irrefutabile. Ma il laboratorio, inevitabilmente, è anche spazio di cooperazione e rivalità, di interessi e polemica, e se le prove sperimentali traessero valore da una presunta oggettività di chi le fabbrica, la storia delle scienze non sarebbe intessuta, come invece notoriamente è, di controversie e di confutazioni. Non in virtù di un particolare atteggiamento degli scienziati si potranno dire oggettivi i legami da loro stabiliti con la realtà, ma proprio perché prodotti dal conflitto e da una sorta di selezione naturale. E qui purtroppo Isabelle Stengers asserisce molto più di quanto non spieghi o documenti: è probabile che l'esiguità delle pagine non le abbia permesso d'articolare a sufficienza le sue tesi, e con le dovute specifiche, ma si ha il sospetto che c'entri anche un'idiosincrasia non rara nei filosofi della scienza, una loro propensione a compiacersi di astrazioni talvolta indeterminate.
Va riconosciuto che il tasso di vaghezza aumenta quando dalla diagnosi si passa alla terapia. Se nei "laboratori" di Galileo e di Pasteur la messa in scena non richiede obbedienza e sottomissione, ce ne sarebbero altri che per contro "mutilano i cervelli" con l'imporre un culto dell'accumulo e della misurazione dei dati, una priorità della "classificazione burocratica di numeri che possono vertere indifferentemente su tutto". Distinguendo fra scienze buone e scienze cattive, fra pratiche feconde e curiose e sensibili per un verso, e per altro verso attività corrotte dal "veleno del potere", l'autrice si sforza di individuare qualche via d'uscita dalla trappola letale che l'uomo condividerebbe con ratti e piccioni seviziati in nome della Scienza. Esclude altresì che si possano o si debbano porre limiti al sapere sperimentale, evento e invenzione non essendo disciplinabili, e suggerisce piuttosto di "demoralizzare il potere" attraverso un sistematico ricorso alla "questione della pertinenza". Occorrerebbe cioè, questo è il senso della prescrizione, che gruppi di cittadini cominciassero a interrogare gli scienziati su come e quanto le loro proposte siano "pertinenti" ai problemi vissuti.
Eccoci dunque proiettati verso un'altezza alla quale "la produzione dei saperi, in quel che ha di affidabile, e la sfida che costituisce una società effettivamente democratica sono legate in maniera cruciale". L'ultimo capitolo, mentre sfiora il nodo dei rapporti fra scienze e democrazia, non può offrire che qualche veloce spunto, fissando un criterio discriminante nella partecipazione attiva di cittadini capaci di far valere i propri interessi, "portatori di nuove esigenze che complicheranno la vita della città". Se viene francamente dichiarata utopica una condizione in cui democrazia e razionalità convergano a realizzare dispositivi utili e sani, la prefigurazione dell'utopia è però anche in grado di svelare come inaccettabile ciò che sembra normale in quanto abituale. Si prenda l'esempio dell'insegnamento delle scienze, che tanto peso ha (o dovrebbe avere) nella formazione sia del futuro cittadino sia del futuro scienziato: Stengers vuol pensare "contro il modo in cui le scienze sono trasmesse", un modo tutto imperniato sul "già fatto", anziché sul "come" "si fa": in altri termini, sul prodotto finito anziché sul processo di lavorazione, con le sue incertezze, i rapporti di forza, i contrasti e le alleanze fra interessi e poteri.
Conclusa la lettura, l'inquietante domanda formulata dal sottotitolo pare avere una duplice risposta: del binomio "scienze e poteri" bisogna al tempo stesso avere e non avere paura, giacché tutto dipenderebbe da come lo si imposta. In un preambolo l'autrice annuncia d'aver seguito, nell'esplorazione dei rapporti fra scienze e poteri, una "maniera labirintica", e pure ammesso tutto il fascino emanante dalla figura del labirinto, resta l'impressione che una linea retta avrebbe forse meglio dipanato il groviglio di fili che compongono e complicano il tema.
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