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recensione di Monteleone, R., L'Indice 1993, n. 6
"La guerra civile somala è il più grande disastro umano dei tempi contemporanei": questo è il punto di vista dell''Africa Watch' e dei 'Phisicians for human rights', che sono due delle più prestigiose organizzazioni umanitarie internazionali del nostro tempo. Di questa catastrofica vicenda Del Boca si è già interessato nel suo libro sull'"Africa nella coscienza degli italiani": dunque, in una dimensione più estesa e in un più complicato garbuglio di problemi, a cui il nostro paese continua a reagire dringolando tra rimozioni e occultamenti, senza decidersi a fare i conti con le colpe e gli errori vecchi e nuovi che si sono accastellati nei nostri rapporti col continente nero, in età coloniale e postcoloniale.
Ora, in questa edizione laterziana, Del Boca torna sull'argomento, concentrandosi sul caso somalo, rammassando notizie su fatti e persone, fino a trattare delle intacibili illepidezze della nostra recente politica in quell'infelicissimo tra tutti gli infelici popoli dell'Africa subsahariana. Certo, la vita, la morte, il fato della Somalia sono sostanzialmente avvitolati a quelli dell'Africa tutt'intera, perché molti dei suoi travagli sono, nelle cause e negli effetti, cose consimili. Già alla metà degli anni ottanta, in un articolo su "Le Monde", André Fontaine concludeva le sue riflessioni sul futuro dell'universo africano con queste parole sepolcrali: "L'Africa è un continente alla deriva". Oggi, giunti più prossimi alle soglie del XXI secolo, gli esperti africanisti assicurano che non c'è alcun serio motivo di rettificare quell'acerbata metafora sulle prospettive di un continente logorato, vampirizzato, immiserito da secolari e capitose sciagure.
Nell'ultimo rapporto della Banca Mondiale sta scritto che l'Africa attraversa "la peggiore crisi registrata nel mondo, a partire dalla seconda guerra mondiale". La spiegazione è nascosta nella fittezza di fattori interni ed esterni su cui è difficile, ma non impossibile, discettare. È convinzione comune, per esempio, che in testa ai fattori interni dei mali dell'Africa stia il ritmo leporino della crescita demografica. C'è poco da stare allegri. Questo fenomeno non è riparabile facilmente, n‚ in tempi calcolabili. Esso è radicato nelle costumanze profonde, nelle necessità esistenziali delle sterminate masse contadine. In un articolo pubblicato alcuni mesi fa nella rivista "Population Studies", J.C. Caldwell ha spiegato che la fecondità della donna in questa parte del mondo risponde a una scelta precisa: ed è lì che la prole è manodopera di alleggerimento della fatica muliebre.
È un rilievo già fatto da Angelo Turco, commentando su questa rivista il libro di Ren‚ Dumont sulla "Democrazia per l'Africa": in pochi decenni, questa ribollicante crescita demografica e la tumultuosa urbanizzazione che l'ha accompagnata, hanno spinto alle stelle i bisogni alimentari; e perciò la dipendenza dell'Africa dai paesi stranieri. Per questa via, l'indebitamento ha raggiunto livelli giugulatori. La dissennata politica agricola dei governi locali aggrava lo squilibrio "malthusiano": desertificazione, monocolture, contenimenti artificiosi dei prezzi, sconciano l'agricoltura africana, schiacciata anche nelle sue potenzialità più produttive dalla concorrenza asiatica e latino-americana.
Imbubbolati da quel che Michel Godet ha chiamato "miraggio tecnologico", i governi africani continuano a sacrificare l'economia primaria a malarditi progetti d'industrializzazione. Ma fin dai primi anni ottanta gli economisti più coscienziosi hanno ammonito sui loro esiti fallimentari, specie nell'Africa subsahariana, dove oggi sono visibili le voragini aperte dagli sprechi di politiche dirigiste, perdute dietro i fumi della corruttela e dell'incompetenza.
Jacques Giri, che è stato consulente terzomondista del Ministero della cooperazione in Francia, nel suo libro sull'"Africa in crisi" ha sonoramente smentito uno dei luoghi comuni più ricorrenti: l'Africa non ha bisogno di "maggiori" investimenti, ma soprattutto di una loro "migliore" utilizzazione. È proprio quello che le inchieste dell'Istituto scandinavo di studi africani hanno dimostrato con abbondanza di prove. Troppo spesso i governi locali si fanno convincere, per grulleria o per furfantesca complicità, a realizzare piani industriali sbonzolanti sopra un vuoto di risorse umane e materiali. Così è successo, per fare solo un paio di esempi, per la produzione della cellulosa in Camerun, o per la raffineria di petrolio in Mauritania. E poi, ci sono i regimi di monopolio di certe onnipossenti multinazionali, come la Firestone in Kenya o la Fiat in Zambia.
Questo modo caotico e speculativo di penetrare nel mercato africano, invece di portare benessere e progresso, ha ravvenato gli indebitamenti, moltiplicandoli nell'ultimo ventennio fino a venti volte. Rivalità politiche ed economiche interferiscono di continuo, inchiodando gli stati africani in condizioni di instabilità permanente. Le radici politiche della crisi dell'Africa non lasciano molte speranze di salvezza, senza un mutamento totale dei sistemi di governo che vi spadronano e dei rapporti che attualmente i paesi ricchi intrattengono con quelli miserabili del Terzo Mondo. Purtroppo, vicende anche dell'ultima ora non incoraggiano a guardare con ottimismo a questo modo di riportare il continente africano dalla "deriva" sulla giusta rotta dello sviluppo. Anzi, il caso somalo illustrato da Del Boca in questo libro intenebrisce ancora di più gli orizzonti. L'intelligenza che esce sconfitta da questa esperienza è quella fatta di intuizione e competenza, è "capacità di intervenire nell'emergenza e di fare storia". Del Boca ricompone puntualmente il gioco delle parti che tra gli anni cinquanta e ottanta si sono scambiate tra Dc, Pci e Psi nel gestire i rapporti politici ed economici con la Somalia, finché, nel novembre del 1991, nel momento del bisogno estremo, il nostro governo ha abbandonato questo paese alla sua devastante anarchia.
Il decennio della gestione socialista dei nostri affari esteri emerge in tutte le sue malemerenze, ormai di dominio pubblico. In grandissima parte sono i medesimi intrugliamenti di cui è intessuta la tragedia di tutta l'Africa, come prima s'è detto: patrocinio di regimi corrotti, ladronesche connivenze, speculazioni illusorie, sperpero di risorse, finanziamenti, favoritismi clientelari... Tutte cose da far arrubigliare i ceffi più induriti.
Tra tanto spensierito volpeggiare di politici e di imprenditori sulla pelle dei somali e l'imbarazzoso silenzio dei complici, le voci di protesta più tempestive sono venute dai missionari, dai Padri Comboniani ad esempio, che dalla loro rivista "Negrizia" hanno spesso allertato l'opinione pubblica. Del Boca cita, tra l'altro, la denuncia di padre Tresoldi, pubblicata sulla "Stampa", dove si legge: "Si sono gestiti 1900 milioni di lire per la cooperazione allo sviluppo del Corno d'Africa... senza presentare al parlamento un serio rendiconto". Sta tutto qui, e nei retroscena indovinabili, il succo di questa aborrevole storia di scaltri e di marcolfi, consumata nella disattenzione o nell'indifferenza generale. Certo, i media hanno fatto entrare fin dentro le nostre case le immagini e le voci di una Somalia apocalittica: figurazioni struggenti di un'umanità imbelvata, preistoricizzata, una bolgia di morte di massa fino ai confini dell'estinzione della specie: l'inferno di Baidoa! Ma è inutile fingere. Nelle società benestanti la distrazione dalla fame e dalla povertà nel mondo, salvo compatimenti di convenienza e qualche eccezione, è un impulso della mente a schermarsi dalle fetulenze di un torbido senso di colpa. Però, quel mondo affamato e povero sta grillettando minacciosamente come in una gigantesca pentola in ebollizione. Cosa ne potrà venire? Potrà essere la malinconica rassegnazione del keniota Ali Mirrek, che tempo fa nel "Newsweek" ha scritto: "Diciamoci la verità: il dominio coloniale sarebbe meglio dell'attuale situazione". L'alternativa a questa vecchia sirena dell'imperialismo umanitario è, come conclude Del Boca, l'insurrezionismo tribale che oggi sta dilagando per le terre africane.
Ha sostenuto pressappoco la stessa cosa anche Marcel Cahen, in un articolo apparso nella rivista "Politique africaine". Il fermento di odi nazionali che sta dilacerando i popoli di questo continente è uno dei retaggi più ferigni del periodo coloniale, di quella "balcanizzazione" imposta dalle potenze imperiali quando se lo spartirono con predace violenza, senza alcun rispetto delle identità nazionali. Cahen è convinto che la questione etnica si affermerà come una delle maggiori rivendicazioni democratiche, se così si può dire, delle genti africane: l'insorgenza del "tribalismo rivoluzionario" sarebbe appunto il modo di rimettere in discussione le frontiere coloniali e di riassettare gli stati su basi nazionali.
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