Che cosa sono le immagini? Sono spettri, ha proposto Georges Didi-Huberman, riesumando la lezione di Aby Warburg (L'immagine insepolta, Bollati Boringhieri, 2006). Sono lucciole, ha rilanciato, con e oltre Pasolini (Come le lucciole, Bollati Boringhieri, 2013). Ora l'originale percorso del filosofo e storico dell'arte francese si arricchisce di una nuova metapicture, secondo il conio di un teorico per molti versi consentaneo, W.J.T. Mitchell: le immagini sono scorze, cortecce. Non si tratta di semplici variazioni sul tema o esercizi di virtuosismo metaforico, perché di libro in libro lo sguardo di Didi-Huberman si pone di fronte a un buio più fitto, a questioni più ardue, sino a spingersi, in quest'ultimo, folgorante testo, sull'orlo dell'inimmaginabile. Scorze è un racconto fotografico, un saggio su alcune fotografie riprese dall'autore durante una visita al campo di Auschwitz-Birkenau. Didi-Huberman, figlio di una sopravvissuta alla Shoah, ha in precedenza scritto un intero libro, intelligente e controverso, sulle quattro fotografie scattate nell'estate del 1944 da alcuni membri del Sonderkommando, le sole testimonianze visive delle operazioni condotte nei crematori durante il loro svolgimento (Immagini malgrado tutto, Cortina, 2005). Sottesa all'uno e all'altro libro è una domanda sul valore di testimonianza delle immagini, che nel più recente lavoro trova una risposta nelle betulle (Birken) che, apparentemente immemori, fanno da quinte al campo a cui danno nome: la loro corteccia è, come le immagini, pura superficie; ma nei suoi strati più interni essa tocca la vita del tronco, vi partecipa, è "apparenza inscritta". I latini (lo ricorda Didi-Huberman al termine della sua tesissima rievocazione) chiamavano liber questo strato più interno della scorza degli alberi, quello da cui venivano tratte superfici atte alla scrittura; e nelle pagine di un libro le immagini devono confluire, se si vuole coltivare la speranza di cogliere in esse un alito di vita, uno sguardo dal passato che renda la nostra immaginazione sensibile all'umanità delle vittime della disumanizzazione di massa. È così spiegata la scelta del genere photo-essay, "un racconto di parole e immagini inseparabili" dove sono le parole, per così dire, ad autenticare le immagini, e non viceversa, come suggerirebbe il senso comune. Allo stesso modo la ripetizione, negli scatti dell'autore, delle inquadrature del Sonderkommando, attiva uno "sguardo archeologico" attraverso il quale "le cose cominciano a guardarci dai loro spazi e dai loro tempi sepolti". Le immagini sono soggetti subalterni a cui bisogna restituire voce e parola, ha avvertito W.J.T. Mitchell; esse portano con sé un debito di testimonianza che solo un'"immaginazione intermediale" (rimando qui al denso saggio di Pietro Montani edito da Laterza con questo titolo) è in grado di saldare, seppure mai compiutamente. Immaginare non significa, per Didi-Huberman, banalizzare. Tutto il saggio è attraversato da una preoccupazione circa le modalità di trasmissione della memoria: "Bisogna semplificare per trasmettere? Bisogna ingentilire per educare? Radicalizzando, si potrebbe dire: bisogna mentire per dire la verità?". Sono domande tanto più urgenti, quanto più prossima è ormai la scomparsa degli ultimi testimoni diretti. La risposta di Scorze è risolutamente negativa, in coerenza con l'impostazione archeologica (anzi esplicitamente filologica, rivolta allo studium piuttosto che al punctum) dell'elaborazione memoriale cui il saggio invita. Coinvolgono maggiormente le fotografie del Sonderkommando così come sono (in formato ridotto, fuori centro e fuori fuoco), delle loro stampe ingrandite e reinquadrate montate su steli accanto al crematorio V di Birkenau, nell'intento (nell'illusione) di mostrare il passato "così come veramente è stato"; ma perdendo la lancinante consapevolezza del "vitale pericolo di vedere" e della "quasi impossibilità di testimoniare" di chi le ha scattate, forse più eloquenti delle cataste di corpi ammassati. Marco Maggi
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