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La riflessione teorica di John Dewey rappresenta una delle principali fonti interpretative del Novecento per definire il concetto di democrazia: interrogandosi sui problemi del proprio tempo, il filosofo americano riesce non solo a stabilire alcuni canoni di comportamento dell’agire democratico, ma anche a proporre uno statuto teorico dell’indagine politica tuttora valido. L’originalità del suo contributo si delinea fin dai primi saggi, dove denuncia quanto fosse insufficiente la diffusa accezione della democrazia come tecnica di governo. Ad essa egli tenta di sostituire non un modello astratto, ma piuttosto il profilo essenziale di aspetti realmente presenti nella «democrazia americana». Dewey pensa che la sfida della democrazia americana consista, appunto, nel riuscire a sviluppare gli aspetti più avanzati del liberalismo politico di Locke, in qualche modo operanti nella cultura «progressista» e in una parte della società americana. Si tratta di rendere compatibili due esigenze solo apparentemente contrastanti: lo sviluppo scientifico e tecnologico e il desiderio di crescita politica, economica e civile dei cittadini.Se con il termine democrazia non s’intende una mera tecnica di governo, ma la capacità di risolvere i problemi della società, questo scopo è realizzabile attraverso un radicale cambiamento, in cui i cittadini siano soggetti politici attivi. Per sottrarre agli interessi economici dominanti la gestione esclusiva delle risorse sociali, è necessaria, in primo luogo, un’informazione libera e trasparente. In politica interna come nei rapporti internazionali, un’opinione pubblica partecipe e correttamente informata può svolgere un ruolo di controllo e garantire soluzioni equilibrate ai problemi urgenti che la società impone.
L'autorità intellettuale di John Dewey negli Stati Uniti non fu limitata all'ambito strettamente filosofico. Investì ampiamente anche la politica. Dewey attraversò infatti il progressismo americano di inizio secolo, sperimentò il radicalismo filobolscevico e, infine, prese parte alla formazione dell'anticomunismo. Gli scritti ora raccolti nel volume curato da Giovanna Cavallari ben esemplificano queste sue diverse fasi. Al tempo della Grande guerra, i "progressisti", quasi compattamente, si pronunciarono a favore dell'intervento degli Stati Uniti "contro l'autocrazia tedesca", giudicandolo un'opportunità per il rafforzamento dell'unità nazionale, prerequisito indispensabile, a sua volta, per la razionalizzazione e la riforma del paese. Furono di questo avviso, tra gli altri, i direttori di "New Republic" Walter Lippmann e Herbert Croly, il leader dell'American Federation of Labor Samuel Gompers e, per l'appunto, John Dewey. Questi, già nel '15, anticipando molti suoi connazionali, volle riflettere sul bellicismo della Germania e sul mito del "destino della nazione", rintracciandone i germi nella cultura tedesca. Prese le mosse, in particolare, dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno. Su quella base era sorta, sia pur inintenzionalmente, la convinzione che ogni violenza compiuta nella sfera empirica potesse essere ritenuta indispensabile per ricondurre l'empiria nella sfera della ragione. Evitando il "pericoloso" dualismo kantiano, il pragmatismo, al contrario, invitava ad attenersi strettamente al mondo fenomenico.
Nel dopoguerra Dewey profuse un notevole impegno nella militanza di sinistra. Prese parte attiva a diverse associazioni radicali. Dopo un viaggio in Russia, nel '28, difese la validità del sistema educativo sovietico, guadagnandosi, così, la fama di "bolscevico". Nove anni dopo fu invitato a presiedere la Commissione d'inchiesta che doveva sottoporre Lev Trockij a un "controprocesso", per valutare l'attendibilità della condanna "in contumacia" emessa in un processo stalinista a Mosca. Il verdetto fu di assoluzione. Ammirato e considerato un "maestro" da alcuni dei più illustri trockisti americani dell'epoca, Dewey si rivelò però in grado, alla fine degli anni trenta, di influire anche sulla crisi del loro movimento. Crisi dalla quale, peraltro, emersero le basi teoriche dell'anticomunismo americano, sviluppatosi poi nel secondo dopoguerra.
Nel '38, invitato da James Burnham e da Max Shachtman, direttori, già in odore di eresia, del periodico trockista "New International", a commentare l'articolo di Trockij Their Moral and Ours, Dewey rimproverò all'esule bolscevico di non avere condotto fino in fondo, in modo coerente, il "sano" principio della giustificazione dei mezzi in base al fine. Un principio che avrebbe imposto di esaminare scientificamente tutti i mezzi possibili, senza preconcetti. Trockij, invece, aveva introdotto nel proprio ragionamento una "fonte indipendente", ovvero l'immutabile "movimento storico" costituito dalla lotta di classe. Non guardava, pertanto, per indicare quali dovessero essere i mezzi, al nobile fine dell'emancipazione umana, ma, fanaticamente e misticamente, alla legge storica della lotta di classe. Dewey concludeva il proprio articolo con l'equiparazione, già compiuta dal suo allievo Max Eastman, pioniere dell'anticomunismo americano, e in seguito ripetuta da molti cold war intellectuals, tra marxismo, religione e idealismo tedesco, "nella convinzione che i fini dell'uomo siano intrecciati con il tessuto e la struttura dell'esistenza".
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