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L'autore definisce questo libro "la storia di una scomparsa". Nel sottolineare infatti quello che giudica il grande divario fra l'apporto del modello gentiliano alla cultura nazionale (qui interpretato come distinto dalla politica scolastica fascista) e l'evolversi successivo del sistema d'istruzione, quale motivo della frattura creatasi nel dopoguerra fra società e scuola, egli indica l'inconciliabilità fra la cultura liberale da un lato, che aveva organizzato, in base a una "logica territoriale", la scuola italiana nell'Ottocento, e dall'altro le culture cattolica e comunista, che successivamente pretesero di influenzarla, sotto la "pressione uniformante dei linguaggi di massa". Cattolici e comunisti si scontrarono a lungo, con l'intransigenza di un Concetto Marchesi a offrire proprio ai cattolici nel secondo dopoguerra, su un piatto d'argento, i privilegi di cui essi si sarebbero in seguito giovati. Siffatti movimenti nulla ebbero a che fare con il processo di "omogeneizzazione culturale" nato dall'unità d'Italia, nel contesto di un dibattito i cui termini sono qui molto ben richiamati. "La scuola è un modo di gestione dell'ineguaglianza", afferma Scotto di Luzio. Ma negli ultimi anni, osserva, ha prevalso il "linguaggio della vittima"; la femminizzazione progressiva del corpo docente ha corroborato la convinzione che la scuola debba essere materna, mite e accogliente; il livello educativo sta rovinosamente calando. Sembra peraltro che l'autore non apprezzi i cospicui passi avanti compiuti dalla scuola italiana sotto il profilo della comunicazione allievi-docenti e nella modernizzazione delle tecniche di insegnamento. Daniele Rocca
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