"L'analisi è quella che si deve fare", mi dice la collega riconsegnandomi La scuola è impossibile dopo averlo avuto in prestito. È una di quelle insegnanti che appartiene, per adoperare le parole di Giulio Ferroni, "a quel paese che resiste ancorato a principi di rigore". Nel paese che ha mollato ci sono, invece, gli insegnanti depressi, i ragazzi attaccati allo smartphone, le mamme che intasano le strade quando accompagnano i figli a scuola, le rituali occupazioni autunnali, le gite con i loro esiti a volte tragici. C'è soprattutto un futuro così incerto che fa tornare d'attualità dolorosa la vecchia domanda: "a che serve studiare?". Un interrogativo al quale la scuola sembra rispondere abbassando drammaticamente il suo tasso culturale mentre, sostiene Ferroni, questo è il momento in cui occorre puntare in alto. Se questa è l'analisi, i punti da stabilire sono, ovviamente: come ci si è arrivati e in che modo se ne esce. In poche pagine, Ferroni disegna una traiettoria che, partendo dai tentativi di riforma di Berlinguer, giunge al documento che ha infiammato la polemica scolastica recente, la "buona scuola" (oggi l. 107 del 2015). Durante questo ventennio, si è realizzato un "alleggerimento progressivo degli studi" al quale ha corrisposto l'aumento del peso delle materie psicopedagogiche (con le loro abilità, competenze e gli obiettivi impossibili e vuoti) e dello spazio concesso all'informatica. Questa ricostruzione della storia scolastica recente trova consensi in un folto gruppo di studiosi (da Ernesto Galli della Loggia a Lucio Russo, al compianto Giorgio Israel e a tanti altri) che condividono l'opinione che al lassismo imperante oggi occorrerebbe opporre il rigore di un tempo. Non era diversa la diagnosi di Evaristo Annibale Breccia, che fu rettore dell'Università di Pisa e commissario agli esami di concorso negli anni cinquanta, quando i professori (come illustra con esempi esilaranti) si macchiavano di strafalcioni incredibili, i presidi lasciavano fare, i commissari dei concorsi erano di manica larga e i docenti universitari non facevano il loro dovere di formatori di insegnanti, presi com'erano nelle loro ricerche monografiche. Già allora si criticavano i nemici del nozionismo, si elogiava il bel tempo che fu, e ci si lamentava della scuola, "la grande malata" (Gli insegnanti bocciati, Nistri-Lischi, 1957). Potremmo andare indietro nel tempo per scoprire che ogni epoca ha prodotto osservatori sconfortati di un'istituzione che consideravano centrale nella società e non rispondeva alle loro attese. E, a seconda dei periodi, segnalavano un colpevole diverso. Lo ha raccontato con ironia impareggiabile Sam Wineburg (Historical Thinking and Other Unnatural Act: Charting the Future of Teaching the Past, Philadelphia 2001: www.temple.edu/tempress/chapters_1400/1518_ch1.pdf), ricordando la disastrosa cultura storica dei ragazzi del liceo, rivelata da una ricerca del lontanissimo 1917, molto prima, quindi, che "esistesse la televisione, le lobbies degli studi sociali, l'insegnamento delle 'abilità', il crollo della famiglia, la crescita di internet o qualsivoglia altra causa che solitamente invochiamo per spiegare questi risultati penosi". Il mondo intero si è completamente rivoltato, conclude Wineburg, in accordo su questo aspetto con Ferroni, "ma una cosa è rimasta ben ferma: i ragazzi non conoscono la storia". Il punto è che, se il rigore e la serietà del maestro sono farmaci ineludibili, occorre domandarsi perché generazioni di insegnanti non sono riusciti a farli propri, se non in casi isolati e mai come categoria. Una diagnosi efficace dovrebbe partire dall'individuazione di qualcosa che da sempre è mancata nella loro formazione. Ferroni dice che il bisogno è quello "di fortissime basi culturali". Ha ragione. E, per quanto appartenga a un'analisi ricorrente nella storia scolastica, non sarà mai tempo perso ricordarlo. A questo dato essenziale, però, occorre aggiungere che da sempre si è ritenuto che la capacità di trasformare tale cultura in uno strumento di formazione fosse un portato dell'esperienza, delle capacità personali del docente, della sua passione, e che, in ogni caso, non potesse essere insegnato. È questo il modello che la storia della scuola ha smentito. Credo che riproporlo sia continuare a tenere in vita un passato nel quale, nonostante i nostri bei ricordi e le lamentevoli condizioni presenti, la scuola non godeva affatto di buona salute. Il terminus a quo del declino varia, da autore ad autore: per alcuni, tra i quali Ferroni, è quel naufragare delle speranze di riforma, che avvenne proprio durante il primo governo Prodi, per altri, fra i quali Galli della Loggia (L'identità italiana, Il Mulino 1998), è quel groviglio confuso e velleitario, costituito dal sessantotto. Se, dunque, le questioni sono così antiche e consolidate, come appare dalla letteratura a nostra disposizione, è plausibile pensare che il responsabile non sarà questo o quel ministro, per quanto discutibile sia stata la sua opera, né che la soluzione potrà essere la maestra amorosa che trasse dai pasticci Massimo Recalcati, quando era piccolo e non studiava (L'ora di lezione, Einaudi 2014). Aantonio Brusa
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