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Titolo: Se un Dio pietosoAutore: D'Alessandro GiovanniEditore: Data: 1996Libro vintage.Argomento: romanzo. Autore: D'Alessandro Giovanni. Editore: Donzelli editore. Luogo: Roma. Anno: 1996. Formato: in-8°. Pagg: 251. Legatura: brossura con bandelle. Conservazione: buona. Ordinario segno del tempo.
scheda di Roat, F., L'Indice 1997, n. 5
Sulmona, anno domini 1708. Dopo la morte del figlio a seguito di un terremoto, lo scultore Berardo, per esorcizzare il lutto della perdita, "facendosi pietra al dolore" scolpisce un Cristo morto di rara bellezza, a cui dà le sembianze del giovane. Questa l'occasione narrativa della prosa d'esordio di Giovanni D'Alessandro. Un romanzo storico basato sulla puntuale ricognizione delle fonti - rivisitate con ampia libertà di intreccio - e dall'ampio respiro corale, ma intimistico nel sottile scavo psicologico che conduce il lettore alla scoperta dell'animo del protagonista. Racconto dall'impianto tradizionale (il capitolo sul terremoto e sui lutti che ne conseguono ha una pregnanza evocativa, una pietas e un registro che ricordano certe pagine manzoniane sulla peste), articolato attraverso una trama sfaccettata e complessa, sebbene alla radice forte di una sua linearità tematica, riconducibile allo scandalo del dolore e della morte, consentiti da un dio la cui pietà non può che apparire paradossale a chi si interroghi su di essi. Attraverso la statua Berardo tenta invano di opporsi all'"unico stato duraturo" concesso agli umani: la transitorietà, giungendo nella sua caparbia rimozione della sofferenza a rifiutarsi di infliggere al simulacro le stimmate e la ferita nel costato. Così, tardivamente, l'uomo comprende di avere sciupato l'esistenza nell'inseguire arte e fama, dimentico dell'amore coniugale e paterno. E gran parte del libro è dedicata al monologo introspettivo di Berardo, con reiterate sottolineature sulla necessità di un amore oblativo, che ricorda l'epistola paolina nel ribadire l'insignificanza di ogni opera o possesso quando difetti l'amore-carità. Unici nei di un'opera prima caratterizzata da stile e abilità narrativa che esprimono piena padronanza di scrittura, l'insistenza didascalica con cui l'autore rischia di far scadere il romanzo in trattatello edificante e il capitolo superfluo sulle peregrinazioni di un Berardo in perenne fuga da se stesso.
Sulmona, 1708, venerdì santo. Berardo, scultore e architetto di grandissima fama, si è ritirato nella sua città natale dopo aver perso l'unico figlio Masino nel terremoto che ha devastato la valle due anni prima. Da allora, nella solitudine in cui si è trincerato, senza più interesse per la vita né per quel mestiere d'artista che lo aveva tenuto lontano dagli affetti più cari, ha lavorato unicamente a scolpire un Cristo Morto di straordinaria bellezza, cui ha donato le sembianze del figlio. Ora la statua è finita, pronta per la processione che la dovrà esporre per la prima volta in pubblico. E attorno ad essa, frutto rarissimo e irripetibile del genio del grande maestro, si scatenano inconfessate cupidigie, piani per impadronirsene, calcoli astuti e segrete passioni. Molti sono gli uomini e le donne che si animano per questo simulacro di un Dio, alla cui entità sono indifferrenti.Ma alla statua, perfetta e compiuta nelle sue sembianze, manca ancora qualcosa, che Berardo non è riuscito a incidere: sulle mani, sui piedi e sul costato non vi sono i segni della passione. Quando sta per essere portata per strada senza le stimmate, accade un fatto misterioso, un miracolo; o forse nulla di tutto questo... Un piccolo evento sconvolge ogni cosa, e per suo tramite il Cristo Morto fa intuire un più profondo segreto, destinato a sconvolgere ogni calcolo.
A Berardo si manifesta in quel momento un dubbio inestinguibile e insieme una problematica certezza: se c'è un dio, certamente egli deve essere pietoso; se esiste, la dimensione con cui si manifesta agli uomini non può essere che la pietà. Una pietà totale, misteriosa, inconoscibile, che solleva per un attimo le creature in un'azzurra vertigine.
Nel suo esordio narrativo, caratterizzato da una sicura maturità espressiva, D'Alessandro annoda le mille trame di questo romanzo «storico» fino a condurle entro l'unità sinfonica di una grande scena corale. Ad essa fa seguito un finale a sorpresa, un «assolo» di Berardo giocato su un diverso registro, su una intensa e consapevole dimensione trascendente.
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