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Sul fronte narrativo l'analogia che salta agli occhi di Self/less, è con Operazione diabolica, del 1966 con Rock Hudson; sul piano pseudoscientifico, il film può richiamare alla memoria anche il più recente Source Code, per il modo in cui la mente del protagonista migra in un corpo altrui, non potendo più utilizzare quello di partenza. Là, però, dove il film di Duncan Jones sceglieva un un'unità di luogo (il treno) e di tempo (8 minuti) tenendo così al caldo il nucleo centrale, e cioè l'idea, evitando di disperderla, il film di Tarsem fa esattamente l'opposto. Il pensiero è un pallone da basket che, una volta iniziata la partita, viene lanciato di qua e di là (e non a caso anche i 2 finali finiscono per essere opposti). Come spesso avviene al cospetto di Tarsem Singh, l'eccesso è il responsabile dell'interesse tematico dei soggetti esplorati ma anche della mancata misura del quadro nell'insieme. In questo senso, la favola, già spesso grottesca e visionaria di suo, come quella di Biancaneve, si era rivelata un terreno a lui più consono di altri. Qui, invece, le misure saltano presto: un po' Bourne-movie ("chi sono veramente?"), un po' detective-story (senza reale giustificazione), Self/Less si risolve infine in un melodramma che indossa l'abito fantascientifico soltanto come un prestante involucro (esattamente ciò di cui si parla, per altro). Ryan Reynolds regge bene la parte, mentre Ben Kingsley stra-fa e Natalie Martinez rischia seriamente di compromettere il tutto, fin dalla sua prima apparizione. Ma è nei modi di racconto che il film fa acqua: pedissequo laddove non ce n'è bisogno, si affida a sincopate clip di montaggio quando vuole invece stringere i tempi. Man mano che si procede in questo modo, non solo si va riducendo l'afflato filosofico del tema ma anche e soprattutto l'interesse.
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