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Seminari. Teoria e clinica della psicopatologia giovanile - Heinz Kohut - copertina
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Descrizione


Nei primi anni settanta, quando le sue vedute teoriche stavano entrando in una decisiva fase di definizione, Kohut tenne un ciclo di seminari teorico-clinici a beneficio degli operatori della Clinica di salute mentale per studenti, associata all'Università di Chicago. Il valore dell'esperienza e l'interesse dei testi che ne danno testimonianza sono fuori discussione e lasciano prevedere la possibilità di un nuovo e più serrato confronto con la 'sfida' lanciata da Kohut alla clinica psicoanalitica attraverso la nuova concezione del narcisismo, della personalità narcisistica e della particolare situazione terapeutica cui questa dà luogo. Motivi di interesse non mancano, in queste pagine, neppure sul versante specificamente teorico. La possibilità di accostarsi alla visione teorica di Kohut nel momento del suo primo consolidarsi getta nuova luce sulla sua genealogia e sul significato dei suoi concetti. Particolarmente marcata appare l'istanza critica nei confronti della 'scuola americana' di psicoanalisi, con i suoi rigidi (e ideologici) concetti di cura, normalità, identità, ecc. Altrettanto riconoscibile è la rivendicazione di continuità con la tradizione 'classica' della psicoanalisi e, perché no, con la sua vocazione utopica e rivoluzionaria.
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Dettagli

1989
17 ottobre 1989
392 p., Brossura
9788834009710

Voce della critica


recensione di Battaggia, P., L'Indice 1990, n. 5

Nei primi anni settanta Heinz Kohut tenne una serie di seminari teorici e di discussioni su casi clinici psichiatri e psicoterapeuti di un servizio di salute mentale per gli studenti dell'università di Chicago. Kohut era già allora uno psicoanalista di elevato prestigio, noto da tempo per i suoi studi sul narcisismo e sul concetto di empatia. La pubblicazione, nel 1971, dell'"Analisi del Sé" già proponeva un insieme di tesi e di punti di vista innovativi, destinati ad un successivo lavoro di rielaborazione, e troncato solo dalla sua morte, avvenuta nel 1981. In questi seminari, espone in forma più semplice e discorsiva di quanto accada nelle opere maggiori, incontriamo gran parte delle proposte teoriche e delle risposte a quesiti clinici e tecnici che costituirono i temi di fondo del suo impegno di terapeuta e ricercatore. Kohut mostra in questa occasione di ritenere come i suoi principi, elaborati all'interno di una rigorosa applicazione delle regole di lavoro della psicoanalisi classica, siano validi anche in altri ambiti di applicazione, quali le psicoterapie brevi con adolescenti qui discusse. Motivo specifico di interesse del libro è anzi la possibilità di valutare l'apporto delle idee di Kohut alla comprensione delle dinamiche e problematiche, anche patologiche, dell'adolescenza e dell'età giovanile, campo in cui alcune sue concezioni, anche per merito di una ben articolata e limpida esposizione e discussione delle situazioni cliniche presentate, appaiono particolarmente convincenti.
Già ben delineato è il ruolo dell'empatia introspettiva come modalità comunicativa e cognitiva fondamentale per rendere possibile un lavoro orientato psicoanaliticamente, tanto che la sua definizione di psicoanalisi convergerà praticamente con l'uso scientifico dell'empatia. Ben consapevole dei contorni imprecisi, arbitrari e sentimentaleggianti che tale termine può assumere in mani inesperte, si sforzerà di approfondirne con rigore il significato, non trascurando di dar valore anche alla capacità di distacco osservativo dalla modalità empatica, per poter formulare ipotesi e applicare modelli teorici ai dati psicologici empaticamente raccolti. Dote generale degli esseri umani, l'empatia assume una importanza centrale in ogni tipo di rapporto, a cominciare dal rapporto madre-bambino. Detto molto schematicamente, un sano sviluppo comporta una risposta empatica materna ottimale alle esigenze infantili, non nel senso di una irrealizzabile perfezione, ma di una capacità di fornire in misura non traumatica quelle occasioni di frustrazione e disillusione che facilitano i processi di differenziazione e sviluppo della personalità nel senso dell'adattamento alla realtà. Fallimenti empatici traumatici possono invece bloccare e deformare lo sviluppo, impedendo la fisiologica evoluzione delle pur legittime esigenze infantili che tenderanno a mantenere aspetti arcaici e irrealistici sotto forma di configurazioni grandiose o idealizzanti. Ciò comporterà una svalutazione e una incapacità di godere dei normali aspetti della vita (nei disturbi narcisistici) o creerà le premesse per disturbi ancora più gravi.
In questi seminari i riferimenti e i confronti con Freud, costanti in tutta l'opera di Kohut, risentono ancora del tentativo si assegnare alle proprie innovative concezioni un campo di applicazione clinico (i disturbi narcisistici), distinto da quello delle nevrosi classiche per le quali il modello freudiano conserverebbe il suo valore. Ma si possono già cogliere abbondanti tracce del futuro sviluppo del pensiero di Kohut. Partendo da premesse sostanzialmente di tipo relazionale, implicite nella funzione assegnata all'empatia, egli è costretto ad allontanarsi e addirittura a contrapporsi al modello pulsionale al quale Freud era rimasto sempre fedele e che Kohut sottoporrà a critiche sempre più radicali, rivelanti del resto una visione della natura umana profondamente diversa. Il compito di realizzare nel corso della vita, lungo una strada ricca di successi come di fallimenti, le esigenze del Sé, caratterizza la concezione dell'esistenza che Kohut, con la definizione di "uomo tragico", contrappone all'"uomo colpevole" freudiano, destinato a un costante controllo delle proprie irriducibili richieste pulsionali in nome di esigenze sociali fatte proprie attraverso il Super-Io.
La lettura di Kohut desta una sensazione di forte coerenza e originalità, che potrebbe essere meglio definita nei propri termini e limiti attraverso un confronto con le posizioni di chi lo ha preceduto e accompagnato nelle critiche a Freud, condividendo almeno in parte la sua concezione dell'uomo e della terapia psicoanalitica. Kohut non ha voluto contribuire a tale lavoro, giudicandolo con un certo fastidio come un impaccio ad dispiegarsi della propria ricerca e affidandolo all'erudito impegno dei suoi critici. Di fatto non è certo difficile dimostrare come in molte delle argomentazioni di Kohut contro la validità della fondazione pulsionalconflittuale della teoria freudiana, si scoprano forti analogie, fino alla sostanziale identità, con gli assunti di base e la visione dell'uomo che portarono, fin dagli inizi della storia del pensiero psicoanalitico, agli scismi di Jung e di Adler. Altrettanto evidenti sono le affinità con il pensiero di Sullivan, sia per l'accento posto sulla prima matrice internazionale come sede degli eventi psichici fondamentali per l'intero sviluppo della personalità che per l'importanza attribuita, sia pure con sfumature terminologiche diverse, all'empatia e all'osservazione partecipe. La definizione di Winnicott, di madre sufficientemente buona, si sovrappone in larga parte all'idea di Kohut circa la fisiologica dose di frustrazioni necessarie per mitigare le aspettative infantili, processo che un altro studioso contemporaneo, John Gedo, definirà efficacemente, nella sua applicazione terapeutica, con il termine di disillusione ottimale.
Con molti altri psicoanalisti che in varia misura e più o meno esplicitamente si richiamano alle pionieristiche esperienze e proposte di Ferenczi, Kohut condivide, infine, l'attenzione sul piano teorico e terapeutico a quell'insieme di traumi e carenze affettive che vengono ad incidere sulla sicurezza e fiducia di base. Un esame di tutte queste assonanze e convergenze di impostazione non sminuisce affatto l'originalità del lavoro di Kohut. Fa anzi meglio risaltare la sua capacità di collocarsi fra gli interpreti più coerenti e persuasivi di istanze presenti fin dagli esordi del pensiero psicoanalitico, in quanto continuamente riproposte nel lavoro con i pazienti.
Kohut è molto cauto nel presentare il suo sistema come un totale superamento del modello freudiano, mostrando di temere le conseguenze di una troppo brusca rottura con la tradizione e dando la curiosa impressione di considerare l'istituzione psicoanalitica come bisognosa delle stesse cautele, nel senso della disillusione ottimale, che egli riserva ai suoi pazienti. Forse proprio la mancanza di un rigoroso confronto con il percorso teorico e pratico altrui finisce per fargli sopravvalutare la portata dirompente delle sue idee, alle quali attribuisce, nelle ultime opere, una funzione rigeneratrice dell'intera psicoanalisi con toni non privi di una certa enfasi e grandiosità. Il terreno della clinica resta comunque la sede più adatta a mettere alla prova la tenuta di ogni sistema teorico, quando ambisca a fornire risposte esaustivamente onnicomprensive. Il confronto con la prassi terapeutica non potrà mancare di fornire anche in questo caso, in pieno accordo con le idee dello stesso Kohut, la necessaria e utile dose di disillusione ottimale.

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