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I limiti dell'interpretazione
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I limiti dell'interpretazione - Umberto Eco - copertina
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limiti dell'interpretazione

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1990
369 p.
9788845216572

Voce della critica


recensione di Pagnini, M., L'Indice 1991, n. 5

Cercherò di riassumere i punti essenziali dell'epistemologia segnica di Jacques Derrida, essendo questi i presupposti di prassi interpretative alle quali Umberto Eco intende contrapporre, molto opportunamente, più sensate direttive ermeneutiche. Nel segno non traspare il reale; esso non è una finestra aperta sulla realtà empirica, immutabile, delimitata; è parte di un sistema di segni i cui significati non derivano da entità extralinguistiche, bensì dal loro reciproco rapporto. Quando Derrida parla di segno intende principalmente 'écriture', che è messaggio decontestualizzato: privo di autore, perché l'autore, con la sua intenzione comunicativa, è assente; privo di significato oggettivo, perché questo non è fissato da una situazione contestuale. L'intuizione dell'intenzione, proposta da Husserl, non è garanzia d'intelligenza oggettiva. La scrittura, così divorziata dall'intenzione aurorale e dal contesto, assume autonomia e continua a significare 'ad infinitum' indipendentemente dalla sua origine. Venendo decifrata in contesti diversi, produce una inarrestabile deriva di significati. Ogni tentativo di ricostruzione sia dell'intenzione che del contesto non dà mai certezza di verità.
Per quanto concerne il testo letterario, che è più di ogni altro testo linguistico fortemente decontestualizzato (il fatto è incontestabile, a mio avviso, ed è proprio sulla base di questa consapevolezza che si può costruire l'idea della 'letterarietà'), la concezione di Derrida si può, in linea di principio, senz'altro accettare. Ed è proprio perché il testo letterario è fortemente decontestualizzato, e lo scrittore gioca sulla sua indeterminazione, che le ri-contestualizzazioni - nelle quali consiste l'ermeneutica letteraria - comportano un complesso lavoro interpretativo e generano interpretazioni diverse. Ma questi concetti derridiani sul significato del segno, i quali, si badi bene, costituiscono una forte radicalizzazione di riflessioni già apparse nella storia della linguistica moderna (Derrida non ama citare), sono stati, come sappiamo, riformulati e ulteriormente radicalizzati dai decostruzionisti americani, i quali hanno portato nella prassi interpretativa dei testi letterari i principi che Derrida ha applicato ai testi filosofici con finalità diversa. Per i decostruzionisti ogni interpretazione del testo letterario è un 'misreading', e il processo della lettura altro non può essere che un gioco combinatorio all'interno del testo. (È doveroso indicare che Derrida ha più volte sconfessato questa sua sedicente progenie, e che, in verità, quando parla di deriva non sembra suffragare letture soggettive e scanzonate bensì la semplice collocazione del testo in contesti diversi. Per cui le letture alternative non sono altri testi, arbitrari, bensì 'rifrazioni' o 'trasformazioni' del testo originario).
È evidente che le derive dei decostruzionisti sono il risultato della rinuncia a ricercare agganci dell'interpretazione in punti testuali ed extratestuali che dirigano se non proprio il sicuro recupero del senso originale almeno una sua plausibilità. Ed è altrettanto evidente che chi coltiva razionalità e senso comune, chi non appartenga alla tradizione 'ermetica' così ricostruita da Eco, senta oggi la necessità di reagire a certi estremismi radicali. E ciò non certo nell'illusione di poter risuscitare un qualche positivismo ontologico, ma rifacendosi invece, serenamente, al superamento kantiano del 'realismo trascendentale'. Con tutto questo, il lettore serio, il quale intenda la fatica dell'interpretazione come un fatto etico, e non come ludica scorribanda, sente di dover tentare in primo luogo la fissazione dei significati primari (storicizzazione del lessico e delle forme), in secondo luogo di recuperare i testi contessuti nel testo, o sulla falsariga dei quali il testo è stato condotto, e infine la consapevolezza dei sistemi culturali, dei modi di pensiero, delle visioni del mondo, ecc., contemporanei alla produzione originaria. Per cui, come è stato ben detto da Gadamer, e variamente ripetuto dai teorici della 'Rezeptionsästhetik, ha luogo una dialettica fra soggetto e oggetto, fra passato e presente, che fa scaturire un modello interpretativo non necessariamente pensato o previsto dall'autore ma comunque plausibili dentro certi limiti di ricostruzione storica. È chiaro che questa modalità interpretativa non rinuncia categoricamente alla possibilità di attingere a un 'significato trascendentale', che ritiene doveroso inseguire, sia pure con approssimazioni probabilistiche.
Qual è la proposta di Eco in questa sua recente raccolta di saggi che appunto intende fissare i limiti della interpretazione? Qui non vengono discusse le teorie di Derrida, ma ci si vuole opporre alle teorie e a certe prassi, eccessive, aberranti, del decostruzionismo americano. Derrida, dice Eco, non si propone d'interpretare - "è più lucido del derridismo" - ma di "dimostrare filosoficamente che il linguaggio, se se ne fa un uso spregiudicato", può "produrre semiosi illimitata o deriva" (p. 39).
Nel complesso fenomeno della testualità letteraria e della sua interpretazione, Eco, alla ricerca di punti d'appoggio, isola tre tipi di 'intenzione': l''intentio auctoris', l''intentio operis' e l''intentio pectoris'. Della prima si sbarazza facilmente, precisando che lo specifico dell'interpretazione di un testo letterario non è un problema 'generativo', cioè non ricerca ciò che l'autore voleva dire, bensì ciò che il testo dice. "La vita privata degli autori empirici - afferma Eco - è sotto un certo aspetto più impenetrabile dei loro testi". E aggiunge: "esistono anche una psicologia e una psicoanalisi della produzione testuale che nei propri limiti e propositi ci aiutano a capire come funzioni l'animale uomo. Ma, almeno in linea di principio, sono irrilevanti per capire come funziona l'animale testo" (p. 125). D'altronde si sa, ormai, che l'io è diviso e che nella scrittura possono comparire messaggi non coscientemente lanciati, e soprattutto - aggiungerei - si sa che l'espressività del testo è il risultato dell'impatto dell''intenzione autorale' (ma meglio sarebbe chiamarla 'impulso espressivo') che si è scontrata con la 'langue', ha cercato di colmarne le lacune mediante neologismi retorici, ed ha assistito al fatto che la lingua assume iniziative proprie, non pensate, non programmate (Mallarmé fondò, com'è noto, la sua poetica sulla "iniziativa delle parole"). Dunque l''intentio auctoris' si è trasformata in testo - o meglio in quella che Eco chiama "intenzione del testo".
A queste ineccepibili riflessioni c'è solo da aggiungere tre cose: che certi prelievi sulla biografia degli autori - per esempio certe occasioni di vita e di cultura - possono essere non dico determinanti per quanto riguarda l'individuazione del senso, ma fornire dati di un contesto esistenziale che conforta certe ipotesi interpretative; che inoltre - e soprattutto - non vanno dimenticate le dichiarazioni autorali di poetica (se ci sono) anche se può accadere che la prassi raggiunga risultati non perfettamente consoni alla teoria, e infine che un''intenzione autorale' può risultare da una ricerca di costanti nell'intero 'corpus' della produzione di uno scrittore. Peraltro dell'idea di autore non si può fare a meno, nel processo della lettura, che ricompone idealmente il modello della comunicazione. Anche Derrida ammette che per leggere un testo sia necessaria formarsi almeno una 'presunta' immagine dell'intenzionalità autorale. L'interpretazione - egli dice - "opera a 'fortiori' nell'ipotesi che io comprendo appieno ciò che l'autore intendeva dire", anche se subito aggiunge che questo necessario rapporto fra autore e lettore non è una garanzia che la vera intenzione si possa cogliere.
In che cosa consiste, invece, la 'intentio operis'? Eco riprende un'idea che già aveva formulato nella "Struttura assente". "I segni letterari" - scrive - sono "una organizzazione di significanti che, anziché servire a designare un oggetto, designano istruzioni per la produzione di un significato" (p. 21). Più avanti precisa ancora: "Agostino nel "De dottrina christiana" diceva che un'interpretazione, se a un certo punto del testo pare plausibile, può essere accettata solo se essa verrà riconfermata - o almeno se non verrà messa in questione - da un altro punto del testo. Questo intendo - Eco conclude - con 'intentio operis'" (p. 33). E una pagina dopo: "L'iniziativa del lettore consiste nel fare una congettura sulla 'intentio operis'. Questa congettura dov'essere approvata dal complesso del testo come tutto organico" (p. 34).
Per chiarire questi concetti è necessario distinguere due fasi: quella della 'lettura' e quella dell"interpretazione'. Nella prima il testo guida e accompagna il lettore. Eco distingue, non proprio parallelamente, l'"interpretazione semantica" ("il lettore, messo di fronte a una manifestazione lineare del testo, la riempie di un dato significato") e la "critica" ("attività metalinguistica che mira a descrivere e a spiegare per quali ragioni formali un dato testo produce una data risposta"). In effetti il testo guida e accompagna il lettore fino a un certo punto. Poi tace. Oltre quel limite è il lettore che, decidendo di interpretare, "guida il testo". Due fasi, queste, da tenere distinte in sede teorica, anche se non sono facilmente demarcabili in sede pratica. Si osservi, 'en passant', sulla tipologia dei testi, che si potrebbero considerare opere - o momenti di opere - in cui il processo suindicato viene bloccato, perché il testo dice tutto, o quasi tutto, da sé, e testi che spalancano al loro interno un abisso di silenzio. Si sa che, secondo gusti modernisti, non è mai un grande testo quello che conduce fino all'esaurimento delle proprie risorse. E si potrebbe anche parlare di polarità fra testi 'trasparenti' e testi 'opachi', secondo, una tipologia che ho proposto in altra sede. Il problema dell'interpretazione riguarda questa seconda fase. È lì che la fantasia del lettore può divenire aberrante; ed è lì che è necessario stabilire dei limiti.
Per Eco l'interpretazione, giusta, legittima, è, come abbiamo visto, una ''congettura'' che "viene approvata dal complesso del testo come tutto organico"; cui fa seguito la precisazione: "questo non significa che su un testo si possa fare una e una sola congettura interpretativa. In principio se ne possono fare infinite. Ma alla fine le congetture andranno provate sulla coerenza del testo e la coerenza testuale non potrà che disapprovare certe congetture avventate" (p. 34).
Ora, la domanda da porsi è questa: si dà qui per scontato che il testo sia "coerente'' prima della sua interpretazione? Che sia, dunque, una base concreta e oggettiva delle nostre interpretazioni, aberranti e no? Un "tutto organico" che aspetta di essere riconosciuto e adoperato come argine? I decostruzionisti, ad esempio, sostengono che questa coerenza i testi non ce l'hanno, e che essa è semplicemente il tutto organico caro agli strutturalisti; niente altro che un costrutto dei lettori. In effetti questa coerenza è raramente una datità. È più spesso una costruzione - dell'ermeneuta - necessaria per ricavare senso - la quale può essere così un riconoscimento oggettivo, ma anche una costruzione soggettiva (molto dipende - come dicevo - dal genere e dal tipo storico di testo che egli ha dinanzi). Infatti Eco stesso poi finisce per riconoscere: "Più che parametro da usare per validare l'interpretazione, il testo è un oggetto che l'interpretazione costruisce nel tentativo circolare di validarsi in base a ciò che costruisce. Circolo ermeneutico per eccellenza" (p. 34). Dunque il "tutto organico" è un arrangiamento delle parti del testo in funzione della congettura, e non già una condizione oggettiva preesistente, in grado di validare o d'invalidare l'ipotesi. E allora sarebbe meglio dire semplicemente che la buona interpretazione è "una congettura consentita dal testo". Ma con questa generica affermazione - troppo generica - non si combattono i procedimenti dei decostruzionisti. Eco parlerebbe di "senso globale" che, a mio avviso, mai è possibile, dato che ogni tipo di interpretazione non consuma mai tutto il testo, non lo attualizza mai tutto. Anzi or sono ho teorizzato l'idea di uno 'spreco' inevitabile, che è poi quello che, riutilizzato (con altri sprechi) può determinare nuove angolazioni interpretative. Eco potrebbe allora puntare su una soluzione empirica. Non parlare, con Agostino, di una interpretazione plausibile "solo se essa verrà riconfermata - o almeno se non verrà messa in questione - da 'un altro punto del testo'", bensì affermare che la migliore congettura è quella che quantitativamente attualizza 'più di ogni altra' le parti stesse della complessità testuale.
D'altronde sulla questione di quelli che ho chiamato 'sprechi', Eco sembrerebbe d'accordo. Parlando di 'topic' egli afferma che si tratta di uno strumento metatestuale e abduttivo che propone cosa del testo debba essere attualizzato e cosa narcotizzato. Se non che anche questo 'topic' non è un dato, è un'ipotesi, che dipende dall'iniziativa del lettore. Il 'topic' è , per definizione, ciò di cui una locuzione parla, e ben si sa quanto sia difficile stabilirlo oggettivamente - nelle pagine, mettiamo di un T. S. Eliot o di un Montale, di un Dylan Thomas o di W. Stevens. Si ha l'impressione che queste riflessioni ermeneutiche di Eco abbiano molto più presente il caso della narrativa che non quello della lirica. I processi interpretativi non sono esattamente gli stessi.
È ora superfluo parlare della 'intentio lectoris', peraltro teorizzata dettagliatamente in "Lector in fabula". Qui, nei 'limiti' dell'interpretazione, Eco suggerisce, molto opportunamente, una distinzione: l'assolutamente diversa attività di quel lettore che scelga non di "interpretare" un testo, ma di farne "uso" per fini non interpretativi; come, diciamo, una sociologia che adoperi il testo come documento di una certa situazione sociale, o una psicoanalisi che usi il testo come pezza d'appoggio per la ricostruzione della psicologia dell'autore, ecc. In questa attività "abusiva" Eco inquadra giustamente certa critica decostruzionista, rivolta a dimostrare le illusioni metafisiche della linguistica occidentale. Però, fra le 'intenzioni' del lettore occupa un posto fondamentale quella che i teorici della scuola di Costanza hanno chiamato "orizzonte d'attesa". Di questo veniamo a parlare.
Nella triade delle 'intenzioni', tabulata da Eco, non compare la 'intentio temporis'. Eppure la ricerca di punti d'appoggio per moralizzare il libertinaggio ermeneutico dov'essere portata anche "fuori" del testo. O, più precisamente, si dovrà cercare qualcosa che è fuori del testo ma che è col testo "strettamente connesso". Che questo qualcosa vada ricercato nella storia è un vecchio assioma. La congettura dell'interprete deve essere corretta e guidata dal contesto storico (si badi bene: dal contesto storico non come causalità ma come sincronia). Naturalmente anche Eco parla di condizionamento contestuale. Egli dice: "Se voglio interpretare il testo di Wordsworth devo rispettare il suo sfondo culturale e linguistico", e altrove: "Non sto affermando che non sia fruttuoso cercare messaggi nascosti in un'opera poetica: sto dicendo che, mentre è fruttuoso farlo per il "De laudibus sanctae crucis" di Rabano Mauro, è fuori luogo per Leopardi. Perché? Perché l'enciclopedia Romantica, a quel che si sa, non contemplava l'acrostico come artificio" (p. 113). È evidente che l'esempio di questo acrostico non si può far rientrare nell''intentio operis', come forza e limite interno al testo che legittima certe e non altre pertinenze. È da ascrivere all''intentio temporis', che induce a giudicare inopportuna quella certa attualizzazione. È superfluo dire che Eco ha sempre dato grande importanza a questi 'codici', e ne è stato uno dei più lucidi e completi teorizzatori.
L''intentio temporis' comprende: a) la forza esercitata sull'autore dai sistemi culturali ('codici', 'sottocodici', 'frames', ecc.); b) la forza esercitata sul lettore, al momento dell'approccio testuale, con la ben nota e fertile complicazione della pressione esercitata dai codici eteroevi nei confronti della creazione originaria. Le due 'intentiones temporum' costituiscono un tema centrale nel processo dell'interpretazione, perché, a guardar bene, assorbono gran parte sia dell''intentio operis', sia dell''intentio auctoris', se si guarda all'autore - come si vede - non come ad una persona empirica ma come ad un portatore di sistemi culturali, i quali sono quasi sempre 'in absentia' rispetto al testo.
Ma si sa che la ricostruzione filologica e storico-culturale non può costituire, in sé, un'interpretazione. L'interpretazione viene dopo ciò che propriamente si chiama 'commento' (recentemente la distinzione fra commento e interpretazione è stata rilanciata da Ezio Raimondi) e consiste nell'applicazione di un 'modello euristico' alla cui formazione le istruzioni del testo non partecipano più. Eco lo sa bene. Altrove in tema di "critica", dirà: "Infine vengono le letture individuali o collettive, le quali appunto scelgono le pertinenze che faran loro comodo" (p. 135). È ovvio che in quel "far comodo" sta tutta la varietà delle interpretazioni buone e cattive; e che rimane ancora da stabilire quali direttive subentreranno perché un'interpretazione non sia aberrante. Secondo me si tratta di 'storia' e di variabili 'paradigmi teorici' "à la Kuhn" (ove stanno, naturalmente, le "comunità interpretative").
C'è un genere di filologia che offre verifiche interpretative e validi argini al libertinaggio esegetico. Questo tipo di approccio ho definito "filologia epistemica" (cfr. "Semiosi", pp. 239 - 327, e introduzione a "Il Romanticismo"), per il quale non si può parlare di 'codici', e di attualizzazioni di codici, bensì di modellizzazioni a raffronto. L'interprete che imposta in tal senso il proprio lavoro, modellizza la cultura, o quella parte della cultura coeva al testo, che interessa il testo stesso, e modellizza ermeneuticamente il testo. Può risultare che le due modellizzazioni diano un risultato 'speculare'. In questo caso, che è quello della 'omologia' di cui parlava Lucien Goldman, noi abbiamo sicuramente un valido conforto interpretativo. Ovviamente anche questa operazione verrebbe messa in discussione da Derrida e dai decostruzionisti, in genere, per essere una semplice ipotesi interpretativa, priva della certezza del 'vero'. Ma tutto ciò che interpretiamo in questo povero mondo sublunare ha questa inevitabile natura. E la migliore soluzione non può essere quella di rinunciare alla 'probabilità' del nostro operato.

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Umberto Eco

1932, Alessandria

Critico, saggista, scrittore e semiologo di fama internazionale. A ventidue anni si è laureato all'Università di Torino con una tesi sul pensiero estetico di Tommaso d'Aquino. Dopo aver lavorato dal 1954 al 1959 come editore dei programmi culturali della Rai, negli anni Sessanta ha insegnato prima presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Milano, poi presso la Facoltà di Architettura dell'Università di Firenze. Infine presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Inoltre, ha fatto parte del Gruppo 63, rivelandosi un teorico acuto e brillante.Dal 1959 al 1975 ha lavorato presso la casa editrice Bompiani, come senior editor. Nel 1975 viene nominato professore di Semiotica all'Università di Bologna, dove...

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