Costruita sull'ipotesi di un mondo in cui insegnanti e insegnamento siano stati sterminati da un virus, l'Unitierra descritta da Gustavo Esteva nel presente saggio è un esperimento, condotto con "spirito molto scherzoso", che richiama la tradizionale università solo per "prendere in giro il sistema ufficiale" e "giocare con i suoi simboli". Presentandosi come una possibile declinazione del proposito di "recuperare la libertà di apprendere", tenta di riportare in vita la scholé intesa come ozio, svago e apprendimento, in un contesto di cooperazione, di scambio gratuito basato sull'amicizia e sulla speranza contrapposta all'aspettativa. Una non-istituzione, una non-scuola; senza l'intenzione di trasformare i suoi "studenti" in qualcosa, senza alcuno scopo educativo, l'Unitierra sembra definirsi solo per negazione; si basa sulla concezione della pianificazione come "nuovo peccato", "arroganza, hybris" e sulla volontà di un "ritorno indietro dal futuro", come astensione e rinuncia a qualsiasi programmazione dell'apprendimento, a qualsiasi obiettivo: "Vivere davvero, invece di andare (
) al diploma, alla laurea, al lavoro". Dichiarando di ispirarsi alle posizioni di Ivan Illich, Esteva radicalizza la concezione di scuola come "problema", laddove il suo predecessore l'assumeva come emblema della tendenza moderna a generare negli individui un "sottosviluppo della fiducia in se stessi e nella collettività" per renderli sempre più dipendenti da servizi burocratizzati. La scuola rappresenta questa mortificazione, in quanto dispensa titoli di studio intesi come "investitura per i ruoli sociali" e strumento di discriminazione. Irrisione dei titoli scolastici fine a se stessi, dunque, così come di una sanità che non garantisca salute e di un sistema d'informazione che non informi: è questo il principio sulla cui base Illich prefigura una "descolarizzazione della società". Il concetto di società non viene annullato nel nichilismo monadico proposto da Esteva, in cui ogni comunità dovrebbe richiudersi su se stessa, e limitarsi alla reiterazione a-programmatica delle pratiche e delle conoscenze tradizionali, pur di rifuggire il termine scuola. Laddove l'autore di questo saggio prefigura uno scenario di tabula rasa della cultura occidentale, Illich auspica la creazione di "trame, tessuti didattici che diano a ognuno maggiori possibilità di trasformare ogni momento della propria vita in un momento di apprendimento, di partecipazione e di interessamento", percorsi che consentano all'individuo di recuperare le sue capacità creative e conoscitive, rendendolo libero, ma non asociale per principio. Esteva mette in discussione la natura dell'educazione come "unica via per diventare cittadini a pieno titolo"; ma non è forse proprio la conoscenza, da qualsiasi struttura provenga, il primo strumento per rapportarsi con il mondo in modo libero e consapevole? Se la scuola non è sufficiente, pensare di creare "un mondo interamente nuovo" appare un'utopistica scorciatoia per aggirare il problema. E rivolgersi unicamente al passato senza alcuna aspettativa sembra altrettanto un modo per non assumersi responsabilità e presumere che il microcosmo comunitario sia sufficiente alla realizzazione di tutti i suoi membri. L'opera di Esteva lascia aperti degli interrogativi: se la libertà e la virtù esistono solo come contrapposizione al sistema, cosa ne resterebbe qualora esso venisse annullato? Aiutare il singolo a non accontentarsi di servizi istituzionalizzati non significa forse insegnargli a crearsi degli obiettivi propri e a perseguirli, piuttosto che a rinunciarvi del tutto per restare a guardare le rovine di una tradizione distrutta in nome della speranza? Chiara Di Paola
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