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Rinchiusa per venticinque anni in una camera buia, su un letto incrostato di escrementi e residui di cibo, ridotta a un fragile mucchio di ossa, circondata da insetti e da scritte deliranti incise sul muro, Mélanie Bastian fu liberata dalla polizia il 22 maggio del 1901 in conseguenza di una denuncia anonima. Il caso giudiziario che ne nacque, le accuse che furono mosse alla madre e al fratello, rispettabili borghesi di provincia, ebbero echi clamorosi per lungo tempo.
André Gide, che era sempre stato attratto dalle vicende giudiziarie, e già nel 1912 aveva voluto fare il giurato alla Corte d’Assise, riaprì nel 1930 il caso della sequestrata di Poitiers con questo libretto, insieme lucida cronaca dei fatti e tentativo di interpretazione di un mistero che, come sempre accade, il tribunale era riuscito appena a sfiorare. Il primo problema che il caso pone è, di fatto, questo: fino a che punto si può dire che Mélanie fu sequestrata, per sordide ragioni, da sua madre e da suo fratello? Fino a che punto si può affermare che fra questi tre personaggi esisteva una sorta di inaudita complicità? Con magistrale penetrazione psicologica, Gide ci guida sul bordo di questi abissi e ci fa intendere come in un tale quadro di ‘orrori borghesi’ potessero convivere la smisurata crudeltà persecutoria e una segreta connivenza. Ciò aiuterebbe a capire, fra l’altro, le sorprendenti parole dette dalla «sequestrata» quando vennero per condurla all’ospedale: «Tutto quello che vorrete, ma non portatemi via dalla mia cara piccola grotta».
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