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Il Messico di Prescott, Rivera e Orozco, di Buñuel, Ejzenstejn e Artaud, dei visionari e rivoluzionari, non nasconde il minaccioso "ringhio di un giaguaro" anche per D. H. Lawrence, che sperimentò il richiamo azteco e maya, il sangue latente e la natura viva, dal 1924 al 1925 completando questo romanzo omaggio al dio serpente-uccello dalle zanne-spire, "che vive nelle alte nebbie delle montagne tropicali". I due cugini, Owen americano e Kate irlandese, giungono a Città del Messico in maggio, e da una rivoltante corrida inizia la loro visita, ma la narrazione si concentra sulla quarantenne (compie gli anni al terzo capitolo) che senza saperlo ha varcato la porta del mistero, sotto la veste di colonialista della "tediosa, macilenta Europa". Divorziata, due figli grandi, vedova del secondo marito agit-prop nazionalista, è una delle sante eroine di Lawrence (tre anni dopo apparirà l'ultima, Lady Chatterly): Kate si sentirà "tirare giù" dal Messico, ma non ha più nulla d'amare e da perdere e si confonderà in questo libro mistico e filosofico, tenuta sveglia dalla catena di eventi (ogni capitolo, un titolo-evento). Così il personaggio diventa tutto, il continente femminile specchio del maschile Messico, ritrovata l'unione rituale come i tanti intellettuali emigrati qui per quel desiderio che l'Occidente, fondato sulla volontà, ha dissipato. Il dio serpente è l'alito di vita, il soffio del vento, il fondere delle sicurezze che Lawrence testimoniò per tutta la sua vita artistica. Il pensiero dello scrittore è antropologico, gli indios verso cui tendiamo sono "incompleti" e, come Kate rappresentante dei bianchi, devono risorgere. Sarà col culto di Quetzalcoatl, nel punto nodale del libro celebrato sulla plaza da ruote danzanti di uomini e donne oltre il tempo. Da questa religione del popolo Kate penserà di fuggire, ma non potrà ormai mutata e rinata, diversamente da "La donna che fuggì a cavallo", racconto coevo lawrenciano, immolatasi all'amigdala degli dei dell'altopiano.
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