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scheda di Casalegno, P., L'Indice 1996, n.10
C'erano una volta i neopositivisti. E una delle tesi più caratteristiche tra quelle messe in circolazione dai neopositivisti era il "principio di verificazione": conoscere il significato di un enunciato vuole dire possedere un metodo che consenta di accertarne l'eventuale verità in modo conclusivo. L'idea sembrava attraente, ma presto ci si accorse che comportava serie difficoltà. Il concetto di verificazione non era agevole da precisare, e per di più non si prestava all'uso filosofico che all'inizio se ne sarebbe voluto fare: tracciare una linea di demarcazione netta tra scienza e metafisica. Si era pensato che contrassegno del discorso scientifico fosse il suo essere verificabile e perciò dotato di significato, e che per contro l'aborrita metafisica fosse costituita per intero di enunciati non verificabili e perciò non significanti. Senonché divenne presto chiaro che stabilire la verità di una legge scientifica era altrettanto impossibile quanto stabilire la verità delle proposizioni della filosofia tradizionale. Anche se qualcuno, come Moritz Schlick, restò sempre fedele al principio di verificazione, la maggior parte degli altri neopositivisti fin per prendere le distanze da esso, e a lungo andare il verificazionismo cadde in completo discredito.
Negli anni settanta, il verificazionismo è stato resuscitato, in una forma nuova, dal filosofo inglese Michael Dummett. L'aspetto più originale del pensiero di Dummett è la connessione istituita fra il problema del significato linguistico, il dibattito su realismo e antirealismo, e la questione di quale sia la logica corretta. Supporre che certi enunciati possano avere un valore di verità oggettivo che trascende ogni possibilità di accertamento da parte nostra equivale, per Dummett, a essere realisti. L'adozione di una prospettiva antirealistica impone invece di identificare il significato degli enunciati non con le loro presunte condizioni di verità oggettive, bensì con le loro condizioni di verificazione, cioè con i criteri che ci permettono di dire in quali circostanze la loro asserzione sarebbe giustificata. Dummett ritiene che ci siano buone ragioni per essere antirealisti, e quindi verificazionisti, almeno in certi ambiti di discorso. Un verificazionismo coerente esige poi, secondo lui, una riforma della logica: se si sostituisce la nozione classica di verità con quella di verificazione, certi principi della logica classica risultano non più motivati e devono essere lasciati cadere.
Gli scritti di Dummett e quelli di coloro che sono intervenuti nella discussione da lui avviata sono in genere alquanto impervi, ben poco accessibili ai non specialisti. Il libro di Usberti è un'eccezione. I primi tre capitoli sono un'introduzione, sintetica ma limpidissima, al verificazionismo dummettiano e al filone di studi logici cui esso si richiama. I capitoli quarto e quinto - i più impegnati - sottopongono a disamina critica alcuni nodi teorici cruciali. Usberti, che pure guarda con simpatia al progetto di una teoria del significato basata su "nozioni epistemiche come quelle di evidenza, verificazione o (in ambito matematico) dimostrazione", individua nella posizione di Dummett certi punti deboli: in particolare, l'argomentazione con la quale Dummett pretende di dimostrare l'insostenibilità del realismo sarebbe difettosa, mentre il suo tentativo di salvare una qualche nozione di verità atemporale reintrodurrebbe surrettiziamente una dose di realismo nella sua stessa teoria. Questo libro piacerà a chi ha il gusto dell'analisi concettuale accurata, ed è un bell'esempio di come la profondità e il rigore possano accompagnarsi a una grande chiarezza espositiva.
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