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Arrivato a pagina 412 del suo monumentale studio, l'autore ha la prontezza di spirito per immaginarsi "che quanto qui sostengo riguardo ai Preplatonici potrà comunque apparire a taluno, se non completamente sbagliato, perlomeno stravagante o eterodosso". Ed è proprio questa l'impressione che credo abbia il lettore "comune", non pregiudizialmente ostile, ma neppure già conquistato dalla "sirena di Archimede" (per la spiegazione del titolo, che deriva da Plutarco, Vita di Marcello, 17, tra suggestioni di Omero, Platone, Kafka e Tommasi di Lampedusa, rinvio alle pp. 383-404). Un po' come la sensazione che si ha quando si gusta per la prima volta un cibo esotico e misterioso, tra predisposizione curiosa alla novità e quella precauzione atavica che ci fa mangiare comunque "con i denti alti", come si suol dire.
Ma procediamo con ordine alla degustazione, premettendo che, per la mole, la complessità e a modo suo il pregio questo libro meriterebbe una recensione molto più lunga della presente, scritta da un pool di esperti in varie materie. I primi due capitoli, relativamente brevi (La continuità indoeuropea: lingua poetica e tradizione sapienziale; Il sostrato indo-mediterraneo, lo sciamanismo e gli influssi vicino-orientali), spiegano le premesse dell'intera costruzione; già qui bisogna tenersi forte, perché l'autore è, con Mario Alinei, il creatore della cosiddetta Paleolithic Continuity Theory (Pct, www.continuitas.com), che proietta l'indoeuropeo comune nel Paleolitico e ne situa i parlanti come da sempre insediati nelle sedi storiche in Europa, diretta derivazione dei primi sapientes sapientes apparsi nel nostro continente, sulla base di un'analisi che rielabora dati archeologici, linguistici, genetici (le ricerche sul Dna) nel quadro dell'epistemologia evolutiva (centrale è qui l'apporto di Gregory Bateson). Il collante culturale dei popoli indoeuropei era costituito per Costa dalla "tradizione sapienziale riflessa nella e dalla lingua poetica indeuropea": testi in poesia o "prosa ritmica", trasmessi oralmente e frutto di elaborazione collettiva, che rimanderebbero a "conoscenze esoteriche e iniziatiche di tipo sciamanico".
E con questo si arriva al cuore del volume, il terzo capitolo (Kósmos epéon: la testualità filosofica tra oralità e scrittura), che in una carrellata mozzafiato riesamina la cultura greca preplatonica (termine preferito a presocratico) per trovarvi le tracce della tradizione d'insegnamento di "un sistema mentale in cui il primato delle finalità della (auto-)coscienza tende a essere posposto rispetto a una visione di comprensione e di integrazione consapevolmente a-cosciente del singolo nel mondo", ottenuta anche attraverso l'uso di droghe (compreso l'oppio) a fini estatici e iatromantici. La messe di materiale presentata a sostegno di questa tesi è ricchissima e non può essere qui sintetizzata; per dare un'idea, l'Elegia a Salamina di Solone sarebbe frutto di una "incubazione in un luogo isolato" da parte del poeta, seguita da trance e da memorizzazione della poesia frutto della trance medesima; miti come quelli di Tantalo sarebbero il riflesso dell'appropriazione da parte della classe sacerdotale delle tecniche estatiche e della conseguente lotta per difendere il proprio geloso segreto da ibristiche "scalate all'Olimpo" di "iniziati insuperbiti dai poteri dell'estasi". Infine, molto più breve, il quarto capitolo (Le parole per pensarlo: la lingua, la filosofia e il pensiero di secondo livello) fa il punto sulla teoria e funge da riassunto e conclusione.
Una disamina per forza di cose superficiale e intermittente come questa rischia però di non rendere giustizia allo studio di Costa, dando l'impressione di un lavoro solo "stravagante", da catalogare insieme all'edutainment spazzatura, ai libri sull'incidente di Roswell o, per restare nel campo linguistico, alle etimologie di Giovanni Semerano. Non è così: questo è un prodotto di seria e severa filologia, che, pur nella sua novità, non fa che ampliare tesi che erano già state di "mostri sacri" come L??? Gernet, E. R.??? Dodds o W??? Burkert (per le droghe, il punto di partenza sono le ricerche di un farmacologo italiano, P??? Nencini), con una bibliografia di più di 1.600 titoli (citati e esaminati minuziosamente nelle abbondanti note a piè pagina) e una perizia invidiabile in numerosi campi dello scibile, anche al di fuori della filosofia pre-platonica. Proprio quest'ultimo punto costituisce però il più grave problema per esprimere un giudizio di merito. Per farlo, infatti, sarebbe necessaria una competenza di prima mano in numerose materie, per non parlare dell'aspetto linguistico (a parte il greco e il latino, infatti, Costa cita e analizza, in originale con traduzione, testi in sanscrito, avestico e nelle lingue medievali dell'Europa, dalle romanze alle celtiche alle germaniche). Si resta così ammirati dalla ricchezza culturale, affascinati dallo stile, sempre chiaro e preciso, storditi dalla carica di novità dirompente di molte pagine, ma restii ad accettarne fino in fondo le conseguenze.
L'impressione è che nel dibattito scientifico Costa parta da posizioni con buon seguito (ma lungi dall'essere condivise da tutti) per portarle alle loro estreme conseguenze, difficilmente accettabili anche da chi sosteneva le premesse. Nel campo della Pct, per esempio, il punto di partenza è la teoria monogenetica nota come Black Eva, che si fa preferire (anche per chi scrive) a quella poligenetica e multiregionale. Essa tuttavia non è che il trampolino per una rivoluzione che fa piazza pulita delle invasioni indoeuropee, ridicolizza l'ipotesi kurganica e postula una unità indoeuropea che dura da almeno quarantamila anni, senza ibridazioni con sostrati linguistici "nostratici", ma con contatti orizzontali con popoli peri-indoeuropei. Sul lato filosofico, le tesi contestatissime della scuola di Tubinga e del nostro Giovanni Reale sugli agrapha dogmata vengono superate per arrivare a un platonismo figlio del pitagorismo e della tradizione indoeuropea così come l'abbiamo brevemente tratteggiata. Ancora (346-358), la tesi coraggiosa e geniale di Lucio Russo, secondo cui la civiltà ellenistica avrebbe dato vita a una vera e propria rivoluzione scientifica, di cui quella moderna non sarebbe che una ripresa, almeno all'inizio pedissequa, è reinterpretata nella chiave che ormai ci è familiare della continuità indoeuropea, per la quale le scoperte geniali degli scienziati alessandrini, lungi dall'essere un fatto totalmente nuovo e "razionale", deriverebbero anch'esse da una sapienza antica e nascosta, che avrebbe continuato a risplendere a intermittenza sino al medioevo e oltre.
In vista della fine, tre suggestioni apparentemente autonome, ma convergenti: la prima è la Nascita della tragedia di Nietzsche (citato solo marginalmente da Costa), con la quale credo inizi la tendenza (non voglio chiamarla moda o partito preso) a riconoscere la grecità "vera" in un mondo anteriore e per molti versi opposto a quello razionale e apollineo dell'età classica. La seconda è, all'opposto, il lucido pensiero di Josef Ratzinger, che in questa razionalità del logos greco vede incarnarsi l'essenza stessa dell'Occidente, dell'umanità e del cristianesimo (un colon trimembre che nel discorso di fede costituisce una climax ascendente), una prospettiva che le tesi di Costa metterebbero tacitamente in crisi, se si potessero confermare. La terza è un'impressione di déjà vu che non vuole essere una malignità: questi antenati indoeuropei che "si facevano" per attingere stadi mentali preclusi ai più e che ponevano il telos etico umano non nella conoscenza razionale, ma in "una visione di comprensione e di integrazione consapevolmente a-cosciente del singolo nel mondo" non sanno maledettamente di generazione dell'Acquario e di New Age?
Questo libro resta il prodotto di un'analisi rigorosamente scientifica: il recensore ne raccomanda comunque la lettura, attuando per sé la sospensione del giudizio che non vuol essere un rifiuto, ma l'apertura di una linea di credito per il futuro.
Ermanno Malaspina
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