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Un libro molto bello e appassionante. La più chiara spiegazione che abbia letto su come la filologia umanistica investa gli altri campi del sapere e li trasformi. Belle le pagine in cui Rico trasmette la dimensione etica e di trasformazione della società dell'umanesimo e come questo avvenga guardando indietro, al modello greco-romano.
Recensioni
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In una recensione comparsa sull’"Indice" del maggio scorso (tagliata da un incidente di posta elettronica) mi interrogavo, a partire dalle
recensioni di Boitani, P. L'Indice del 1999, n. 07
A tale sogno Francisco Rico dedica uno straordinario, piccolo libro dall’approccio a un tempo rigoroso e libero: pagine costruite come quelle di un breve, coinvolgente romanzo storico nel quale sia distillata con sapiente leggerezza tutta la conoscenza che l’autore ha del periodo e dei suoi personaggi. Per quanto complesso e contraddittorio sia il fenomeno umanistico, la sua tradizione storica è, per Rico (e la provocazione salutare del suo lavoro sta qui), una – quella che da Petrarca conduce a Salutati, Bruni, Alberti, Valla, fino a Vives, Budé ed Erasmo – e uno è il suo sogno: quello di resuscitare la lingua degli antichi e quindi ogni sapienza: "coltivando il latino sarà facile restituire all’antica perfezione tutte le altre discipline. Tutte, sì, perché senza gli studi umanistici, ‘sine studiis humanitatis’, nessuna disciplina può essere adeguatamente conosciuta". Il sogno, insomma, è ambizioso e grandioso: partire dagli antichi per creare un mondo nuovo.
A Padova si "scoprono", alla fine del Duecento, le tombe di Antenore e di Tito Livio; nel 1315 Mussato viene incoronato (Dante ancora vivente e mai premiato) come poeta e storico per la sua Ecerinis; Petrarca si entusiasma per Cola di Rienzo vedendo nella sua impresa un tentativo di resurrezione della Roma antica. L’impulso che domina questi prodromi è il medesimo: è la passione che parte dalle parole (e quindi rivaluta la poesia, come fa Boccaccio nelle Genealogie) per abbracciare tutto – filosofia, politica, geografia, religione, architettura, scultura, pittura, forme di vita. È "un modo di mangiare" e anche "di divertirsi, di amare, di fare la guerra, l’arte o la letteratura"; "o anche, certo, una grafia, una grafia che si ispirava ai caratteri della minuscola carolina le cui due varianti, le stesse di oggi, sono entrambe eleganti, semplici e diafane". È una aedificatio della Terra: progetto di case, palazzi, chiese, ma anche di città, canali, trafori, navi, macchine da guerra (e non è un caso che il De re aedificatoria dell’Alberti costituisca "il vertice supremo del primo umanesimo"). È, infine, una lettura del mondo che "coinvolge il maggior umanista della penisola iberica ed il più grande marinaio dell’epoca": Antonio de Nebrija e Cristoforo Colombo (qui, le pagine di Rico si fanno particolarmente intense).
Il sogno, però, svanisce presto, muore nella filologia e nella formazione di un canone, nel "formalismo" sul quale concorderebbe anche Remo Guidi: "ciò che per un verso è evoluzione, è per l’altro involuzione", scrive Rico; "in nome di un’esasperata filologia si rinuncia ormai al sogno di rifondare una nuova civiltà, l’inizio della Altertumswissenschaft segna la fine dell’umanesimo come animatore di tutta la cultura". Mentre con Erasmo giunge al culmine quell’unione di pietas cristiana e litterae già predicata dal Petrarca, è dalla sua opera didattica che "si ha l’impressione che l’umanesimo si cristallizzi alla fine in una bibliografia di base, si oggettivizzi in una lista di required readings"; che insomma l’Umanesimo stia trasformandosi in "cultura umanistica": tutto quel che (ancora, forse per poco) rimane a noi.
Piero Boitani
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