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SHAKESPEARE, WILLIAM, Sogno di una notte di mezza estate
MARLOWE, CHRISTOPHER, Ero e Leandro
recensione di Rognoni, F., L'Indice 1997, n. 3
Amore senza morte. Si direbbe un'impossibilità, soprattutto se gli amanti in questione sono le coppie leggendarie e sfortunate di Ero e Leandro e Piramo e Tisbe: le quali insieme, per una manciata di notti di passione (e solo per la prima, ché gli altri due innamorati han sempre un muro che li divide!), finiscono con un annegamento e tre suicidi.
E tuttavia, per una volta: "amore senza morte". Infatti Christopher Marlowe (1564-93), non meno grande come poeta che come drammaturgo, non si spinge fino all'ultima, fatale nuotata di Leandro, ma conclude il suo meraviglioso poemetto erotico all'alba dopo i primi amplessi, quando le gote della vergine conquistata si imporporano con l'aurora ("Così la gota rosata di Ero / Ero tradì, e allo sguardo / di Leandro rivelò la sua forma / nuda, di cui i suoi occhi adoranti si inebriarono") - e non l'amato, bensì "l'orrida / notte" affonda, "dall'onta, dalla collera / e dal dolore vinta, il proprio carro / nefasto inabiss[ando] nell'Erebo".
Mentre, nella sua commedia, Shakespeare lascia sì che Piramo e Tisbe si uccidano, ma solo per ridere, nella recita improvvisata da una compagnia di goffi artigiani per il sollazzo delle coppie aristocratiche. Le quali ora si trovano felicemente congiunte, però tutta la notte si sono inseguite nella foresta fatata come in un balletto - illese ma sfiorando a ogni figura la tragedia intimata fin dalla prima scena: "Così veloce / a perdersi è tutto quel che splende". (I veri Piramo e Tisbe di Shakespeare sono, naturalmente, Romeo e Giulietta, la cui triste vicenda fu composta attorno al 1595, appunto come il Sogno).
E veniamo alle traduzioni. Quella di "Ero e Leandro" è molto letterale, ma non rispetta assolutamente il taglio del verso: nei distici di Marlowe non c'è probabilmente un solo "enjambement", mentre nei più brevi versi sciolti di Kemeny - direi che vi predomina il decasillabo, come nella sua raccolta poetica più recente, "Il libro dell'angelo" - è difficile isolare una sequenza che non esibisca almeno una vistosa inarcatura. Questo all'inizio può lasciar perplessi: e invece, alla lunga, serve a guadagnare al testo italiano una sua "fedele autonomia" e un ritmo inedito che senza dubbio gli permetterebbero di reggere anche senza l'inglese a fronte.
Come avviene per la godibilissima versione del "Sogno" di Patrizia Cavalli (già messa in scena da Elio de Capitani, ora nella benemerita collana "Scrittori tradotti da scrittori"), le cui novità iniziano dal titolo, dove cade la tradizionale "mezz'estate", effettivamente priva di senso in italiano, ma regolarmente conservata in tutte le traduzioni che ricordo (compresa quella del film di Woody Allen che vi s'ispira, "Commedia sexy di una notte di mezz'estate"). Anche la Cavalli è egregiamente fedele alla lettera: cosa straodinaria, essendosi imposta anche la fedeltà alle forme metriche e alle rime, risolte con il tocco leggero - e la divertita, sapiente naturalezza - che è della sua poesia originale. Qui ascoltiamo l'ultimo magico canto del folletto Puck (son versi che a suo tempo aveva tradotto anche Montale): "Rugge il leone affamato / e alla luna ulula il lupo / mentre russa il contadino / dal lavoro affaticato. / Ora il tizzo senza fumo / arde al buio nel camino. / La civetta stride forte / per chi giace tra i dolori / sembra annunzio della morte. / A quest'ora della notte / ogni tomba manda fuori / i suoi spiriti a passeggio / pei sentieri del sagrato. A noi in fuga dal corteggio / di quel sole tanto odiato, / noi sul carro della Trivia / dietro al buio come a un sogno / ora stiamo in allegria. / Neanche un topo stia d'attorno / nella casa benedetta. Ho portato la scopetta / perché ho un compito d'assolvere, / devo togliere la polvere".
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