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Approda ai Millenni Einaudi (con le cure e la qualità che la collana garantisce da settant’anni) la nuova edizione critica dei “Sonetti” di Belli. Curata da Gibellini, Ripari e Felici (che nel frattempo è venuto a mancare): si compie così un tragitto che ha portato da un’opera clandestina, pubblicata postuma, poi per decenni trascurata (la cultura risorgimentale e poi quella idealistica non potevano sopportare un testo così verticalmente pessimistico), infine riproposto soprattutto da poeti e scrittori (Vigolo, Gadda, Pasolini, Moravia) e consegnato alle cure di filologi e studiosi appassionati e non sempre d’accordo su punti dirimenti (Vighi, Cagli, Muscetta, Lanza, Samonà, Merolla). Infine, negli anni 80 del secolo appena trascorso, i dieci volumi delle “Letture belliane”, un’analisi puntuale, plurale non priva di spunti ermeneutici decisivi. Gibellini, che da cinquant’anni ha dedicato a Belli studi e sondaggi, raccolti via via in tre volumi, nella breve introduzione restituisce definitivamente al poeta il posto che è suo, tra Dante (per la tensione profetica ed espressiva) e Manzoni e Leopardi (per altezza di interpretazione di un passaggio decisivo della storia, anche culturale, italiana). Certo, il romano vive in una condizione, quella della Roma papalina del primo ottocento, in cui la diagnosi dei mali della nostra storia è gravata dall’immobilismo e dalla disperazione di un’assoluta mancanza di prospettive. Ma questo gli ha permesso di dar voce, senza idealizzarla, a quella plebe romana che, al di là delle sue stesse intenzioni, ancora oggi ci dice una “verità sfacciata” e poco consolatoria. Un “monumento” di quella plebe, come lui ci prometteva, capace di far parlare il suo autore al di là delle sue intenzioni e di parte delle sue convinzioni.
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