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Gli spiantati è un romanzo progressivamente claustrofobico. Quattro vicende indipendenti si sviluppano tra Berlino, Londra, New York, Heidelberg, Budapest: il respiro è ampio, la cornice coincide con il mondo intero. Poi, con un lento e inesorabile zoom, le storie scivolano tutte verso Londra, verso lo stesso quartiere, Kentish Town, infine verso la stessa strada, lo stesso palazzo, le stesse stanze. Questo intrecciarsi progressivo, che solitamente genera la gratificante sensazione del tutto che si tiene, qui dà vita invece a un forte senso di claustrofobia. Londra diventa una bolla di vetro in cui i personaggi compiono rotte brevi e insensate: in quello spazio angusto sono costretti a incrociarsi, a ripetere imitandosi a vicenda i pochi percorsi possibili, a vivere l'uno l'esistenza dell'altro. Dentro questo microcosmo giungono, indebolite e distorte, vibrazioni dall'esterno: l'11 settembre, Bush, l'Iraq. I personaggi rifiutano di recepirle, poiché non si dà altra storia, per loro, che quella delle loro esistenze. Eppure è proprio la storia a muoverli: l'avvocato tedesco Jakob prende il posto di Robert, il collega morto nell'attentato dell'11 settembre, e da Berlino si trasferisce a Londra. La moglie Isabelle introietta l'atmosfera nervosa e eccitata che domina la capitale inglese allo scoppio della guerra in Iraq, e la riproduce nei suoi comportamenti; esattamente come la Gran Bretagna di quei mesi, sembra pensare alla violenza come all'unica possibilità di cambiare le cose. Eppure le cose non cambiano.
"Tutto sarà diverso", è l'incipit del romanzo; "niente sarà più come prima", ripete ossessivamente la voce di Bush dopo l'11 settembre; "sarà tutto diverso adesso", esclama Jakob nell'ultima pagina del libro. Con il procedere delle pagine la frase acquista una sfumatura grottesca. Tutto rimane uguale: le forze potenzialmente centrifughe l'impulso omosessuale, gli episodi di violenza, la morte, l'adulterio sono amputate d'ogni conseguenza. Lo strumento usato è la rimozione. Rimuovere, o si muore: questa è la legge che regola i rapporti con il presente e con il passato. È la rimozione il vero presupposto dell'ottimismo con cui Jakob affronta il proprio lavoro, la restituzione dei beni sottratti agli ebrei dai nazisti. La fiducia che Jakob ripone nello sforzo di riparare la storia "artigianalmente", a posteriori, si scontra con il disincanto del suo principale Bentham, per cui la legge è una sorta di Achille che insegue invano la tartaruga della storia. Bentham, ebreo scampato alla Shoah, sa che la storia non si lascia riparare, che non ha senso far restaurare l'armadio sfregiato dalla follia di una persona cara. Jakob, invece, ha portato a Londra dei mobili Biedermeier: sono queste "buone cose di pessimo gusto", rassicuranti al limite del kitsch, a costituire per la coppia tedesca il bagaglio del passato. L'altro passato della Germania, il più doloroso, viene appunto rimosso: solo vivendo a Londra Jakob sarà costretto a prendere coscienza di Berlino. Il luogo della guerra presente obbliga a mettere a fuoco il luogo della guerra passata.
È, appunto, soprattutto una questione di luoghi. Ancor più che il "ritratto di una generazione disorientata", questo è un romanzo sul disorientamento spaziale: l'accento cade prima sul paesaggio e poi su chi lo abita. Hacker ha certo la vocazione dell'affresco: ma il suo soggetto non sono le pallide figure di Jakob e di Isabelle, alle quali non concede un barlume d'introspezione. Se Gli spiantati è un ritratto, allora è il ritratto di uno spazio: i personaggi sono le pedine che lo esplorano per conto dell'autrice. Hacker osserva dall'alto, impassibile, i movimenti disordinati sulla scacchiera, registrandoli come per un giornale di bordo. Ma i personaggi non fanno che perdersi, e la scacchiera non ha ascisse né ordinate. È l'uso dei deittici a rendere il senso del disorientamento: "Isabelle è lì [ist da]", "là era Dave" là dove? non è dato saperlo. Il ripetersi ossessivo di queste formule, precise e imprecise, rivela in tedesco più che in italiano: da sein è "essere lì" ma anche "esserci, esistere" come i personaggi coincidano con il loro rapporto con lo spazio; come, dunque, non solo i luoghi, ma anche le esistenze siano segnate dalla claustrofobia. Irene Fantappiè
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