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Le stanze dell'addio
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Le stanze dell'addio - Yari Selvetella - copertina
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stanze dell'addio

Descrizione


Candidato al Premio Strega 2018

"Che amore inutile è l'amore che non protegge, l'amore che non cura e non difende, l'amore che non può, un amore crudele sento di portarmi addosso come l'amore di Dio"

«Così Yari Selvetella nella cronaca dell'addio alla sua compagna. Un viaggio attraverso le stanze del lutto senza mai cedere alla retorica dei sentimenti» - Robinson, La Repubblica

Io ho ricominciato a lavorare. In altri luoghi scrivo, succhio gamberi, respiro foglie balsamiche, faccio l'amore, ma una parte di me è qui, sempre qui, impigliata a un fil di ferro o ha una paura mai vinta, inchiodata per sempre: il puzzo di brodaglia del carrello del vitto, quello pungente dei disinfettanti, il bip del segnalatore del fine-flebo, la porta che si chiude alle mie spalle quando termina l'ora della vita

Così si sente chi di noi vive l'esperienza di una perdita incolmabile: impigliato, inchiodato. Dalle pagine di questo libro affiora il volto vivissimo di una giovane donna, Giovanna De Angelis, madre di tre figli e di molti libri, editor di professione, che si ammala e muore. Il suo compagno la cerca, con la speranza irragionevole degli innamorati, attraverso le stanze - dell'ospedale, della casa, dei ricordi - fino a perdersi. Solo un ragazzo non si sottrae alla fratellanza profonda cui ogni dolore ci chiama e come un Caronte buono gli tende una mano verso la vita che continua a scorrere, che ci chiama in avanti, pronta a rinascere sul ciglio dell'assenza. Yari Selvetella dà voce a un addio che sembra continuamente sfuggire al tentativo di essere pronunciato, come Moby Dick nel fondo del mare, e scrive un kaddish laicissimo eppure pervaso del mistero che ci unisce a coloro che abbiamo amato. Attraverso il labirinto al neon degli ospedali, le stanze chiuse del lutto, il filo tracciato da una penna sul foglio bianco è ancora di salvezza, celebrazione commossa della forza vitale delle parole.
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Dettagli

2018
2 gennaio 2018
192 p., Brossura
9788845295553

Valutazioni e recensioni

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Gabriele Della Torre
Recensioni: 1/5

Sono stato attratto da questo titolo per vivere un modo differente di attraversare un periodo di lutto. Leggendo la trama le aspettative erano alte. Purtroppo si sono dimostrate infondate. Mi aspettavo di provare emozioni anche forti ma il livello è rimasto sempre molto basso. Lo stile di scrittura non mi ha proprio convinto rendendomi la lettura difficoltosa.

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Camilla
Recensioni: 5/5

Mi sono approcciata a questo libro avendo grandi aspettative e temendo di restare delusa, invece le ha superate di molto! Ha dato voce a pensieri che smaniosamente cercavo di esprimere non riuscendoci, e mai sarei riuscita a fare in modo migliore di così. E' un libro molto forte, che può risultare impegnativo ma che senza dubbio ripaga e arricchisce molto il lettore! Suscita emozioni profonde, fa riflettere, sussultare e lascia a bocca aperta.

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patriziab
Recensioni: 5/5

Romanzo struggente sulla perdita di un proprio caro. Il protagonista si muove tra sogno, ricordi della propria moglie e realtà e nel suo peregrinare reale e interiore, incontra un barista, che si incuriosisce per quest'uomo che tutte le mattine prende una consumazione da portar via, facendo attenzione a mantenere tutto disinfettato e asettico con l'amuchina prima di dirigersi all'interno dell'ospedale. La narrazione si snoda nell'ossessiva assenza e nella ricerca disperata, tra le stanze dell'ospedale,della moglie che egli non trova più, ma tutto parla di lei tra i prosaici oggetti e odori del nosocomio, ogni angolo e ogni particolare, sublimando il dolore della perdita in questa costante ricerca fino a riemergere lentamente da questo oscuro oceano e a rinascere. Il racconto avviene a due voci, quella del protagonista e quella del barista, che si incrociano per caso, ma poi neanche tanto... Lo stile è davvero particolare, capace di descrivere anche i momenti più banali della vita quotidiana con lei, quando era in vita, in modo struggente e poetico,con una parola densa e ricca di simbolismi, lasciando trapelare un amore incondizionato per la moglie; ma anche di svelare a sé in maniera cruda e disincantata la dura verità fino ad approdare ad una nuova vita. La narrazione inoltre è costellata di affascinanti rimandi letterari che mostrano una vasta cultura da parte dello scrittore. Lettura difficile per l'argomento: non nego che a volte ho provato sensazioni contraddittorie, fastidio, repulsione e attrazione per ogni riga di questo anomalo romanzo, forse a causa di eccessiva immedesimazione. Lettura consigliata a chi è forte d'animo e vuole immergersi in una struggente e non scontata idea dell'amore.

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Recensioni

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Voce della critica

Selvetella e la morte: azzardare, cadere, continuare

Ci sono casi e momenti in cui andare avanti sembra impossibile, ma è un dovere. O almeno di questo vuol convincerci un libro che bisogna far macerare a lungo dentro, prima di comprenderlo davvero e prima di poterne parlare o scriverne con onestà e lucidità. L’amore che resta in circolo, anche quando una persona amata muore, può essere sufficiente per continuare a vivere, al di là della sofferenza e, soprattutto, al di là di qualsiasi senso di colpa. Dolore e disperazione, ricordi e sofferenze possono trasformarsi in una forza che non sospettavamo di avere, “nel tempo inghiottito in cui tutti torniamo a nuotare“.

Sono riflessioni a cui s’arriva leggendo un volume pubblicato dalla casa editrice Bompiani, Le stanze dell’addio, memoir di Yari Selvetella, autore televisivo e giornalista, oltre che scrittore, spesso di cronache criminali. Il “crimine”, stavolta, è la morte prematura di una donna, la madre dei tre figli dell’autore, la compagna di vita, Giovanna De Angelis, editor e scrittrice, di cui era apparso postumo un romanzo, La frattura, edito da Elliot, che in qualche modo può considerarsi complementare a quello di Selvetella. Il suo compagno ha atteso a lungo e fra mille dubbi, per venire allo scoperto, con pagine incredibili sulla sua scomparsa: un intollerabile dolore dell’anima, perché chi, davvero è preparato alla morte? Alla propria o a quelli di chi amiamo? Nel volume di Selvetella c’è l’intima sofferenza senza la stampella di lacrime “facili”, senza nessun elemento patetico o retorico. Un’operazione non semplice, ma messa in atto e su carta dolorosamente, eppure lucidamente, nonostante i confini che la vita ha costretto a oltrepassare, che scompaginano tutto, eppure conducono a una rinascita, a farci comprendere chi siamo realmente.

I corridoi dell’ospedale, il capezzale dell’amata, i libri da leggere (Melville o Simenon), gli aghi e le flebo, il mondo all’esterno e perfino altri malati che guariscono. Fanno i conti con tutto questo il narratore e l’amata, scomparsa dopo un nuovo ciclo di chemioterapia, senza che si materializzi la possibilità di un trapianto di midollo. E poi ci sono le ombre da allontanare, i figli da accudire, il necessario, indispensabile ritorno alla vita, nei suoi gesti più semplici e quotidiani (farsi la barba, fare l’amore, scrivere, mangiare gamberi), anche se “le stanze dell’addio” tornano periodicamente a rimbombare nella mente. La lingua di Selvetella – che si esplicita non solo nella prima persona – non ha sovrastrutture, è priva di orpelli, ma riesce a essere comunque densa e pregnante. Non si perde in smancerie e sentimentalismi, ma è davvero sentimentale, in un equilibrio audace che stupisce e incanta. “Prendersi la vita è dare, è azzardare e cadere. Posso solamente continuare”. A caccia del coraggio di ogni giorno. Un libro autentico come pochi, fra quelli scritti negli ultimi anni.

Recesnsione di Micol Treves

 

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L’uomo coi baffi e il barista si conoscono in un ospedale. Spesso, il barista ha servito all’uomo coi baffi una bottiglietta d’acqua, ed è rimasto colpito dal cerimoniale con il quale questo cliente, in sé e per sé identico alle centinaia di altre persone in transito oltre il bancone, disinfettava con cura la bottiglietta, riuscendo ad uscire dal locale senza aver toccato nient’altro. L’uomo coi baffi crede di avere una ragione per trovarsi in quel luogo, ma la realtà è un’altra; è convinto di dover ritrovare la donna che ama, la madre dei suoi figli, che però non troverà mai più in nessun luogo, perché tra le mura di quell’ospedale una malattia se l’è portata via.

Yari Selvetella racconta, in un romanzo struggente e coraggioso, le sofferenze e le lotte della sua compagna, Giovanna De Angelis, editor, critica letteraria e a sua volta autrice, scomparsa prematuramente a causa di una terribile malattia. La narrazione è affidata ai pensieri dell’uomo coi baffi, al loro flusso a tratti incontrollato, attraverso il quale il lettore ricostruisce il susseguirsi degli eventi e la loro estrema drammaticità. Fuori dai pensieri, esistono solo i luoghi. L’uomo torna ai corridoi e alle stanze dell’ospedale, crocevia di destini dei condannati e dei salvati, dove nell’impotenza ci si appiglia ai numeri e a tutte quelle piccole cose che sanno di normalità. Tra quelle stanze l’uomo si trova ad affrontare le stanze della vita vera, quella quotidiana e condivisa, dove all’improvviso ogni oggetto assume un significato che prima non aveva e al quale occorre assegnare un nuovo ruolo. Accanto a questi spazi, visibili e tangibili, c’è la sterminata distesa della memoria, da ripercorrere in ogni direzione quando il presente diventa insopportabile.

Le stanze dell’addio però non racconta soltanto la battaglia e la sconfitta: dopo la devastazione si può cercare di ricostruire. Yari Selvetella infatti trova la forza sovrumana di rivivere e spiegare il lutto e tutta la fatica che esso richiede, e qui stanno la bellezza e l’autentico significato della decisione di scrivere un libro come questo: nell’onestà di affermare che non è tanto la vita ad andare avanti, ma che sono le persone, giorno dopo giorno a scegliere, tra titanici sforzi, che sopravvivere non è abbastanza e che ci sono delle ragioni per continuare. Con la dolorosa ma necessaria consapevolezza che una parte di ciò che si è, rimarrà sempre legata a ciò che non è più.

Recensione di Elisa Valcamonica

 

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I vincitori del concorso "Caccia allo Strega 18"


LuciaR - Recensione stregata scelta da Yari Selvatella


Non avrei mai pensato che il dolore potesse rimanere etereo sulle righe nonostante il suo peso pachidermico, ingombrante. L'autore lo esprime con parole semplici, senza retorica ed a tratti ho l'impressione che lo riesca a comprimere come un adolescente fa con i suoi abiti nell'armadio pronto ad esplodere se non lasciasse la ragione, come sentinella, con le spalle appoggiate alle ante. Mi ha dato i brividi sia come operatrice sanitaria che come persona con un cuore ormai a fette per tutti i lutti subiti ai quali ne ha promessa una. Leggendo si finisce per rimanere con i pugni serrati per l'angoscia e l'anima espansa nella speranza che la sofferenza inferta dalla malattia abbia un senso, alla fine, almeno per chi rimane e litiga con lacrime da ingoiare e ricordi da collocare in quel posto agevole da raggiungere ma non troppo, non sempre sotto gli occhi della memoria. Imparare a sopravvivere con l'assenza, che fa un rumore assordante, e condividerla con i figli diventa un vero lavoro dentro e fuori se stesso. L'autore mi ha emozionata con il suo, involontario, manuale per addolorati perchè so cosa ha provato e non perchè si sa che esiste lo strazio, la malattia, l'incidente, il dolore ma perchè provarlo è un'altra storia e si finisce per essere solidali e mentre assisti al dolore altrui il tuo viene in superficie come un tappo di sughero che tenevi sotto l'acqua premuto a forza; diventa inevitabile il viaggio dentro se stessi e le proprie emozioni, forse scontato come dentro la trama delle favole mentre il protagonista attraversa quel luogo buio da solo e non sa se nella mischia tra luci ed ombre vincerà la strega o la fata. Consiglio la lettura di questo magnifico lavoro di Selvetella perchè è vero che il dolore è un vestito su misura, a ciascuno il suo, ma può servire a scegliere il sarto.


Federica

Una parola descrive questo libro: NECESSARIO. In meno di 200 pagine entriamo nel dolore, quello vero. A volte fa così male da non voler proseguire la lettura però continui a leggere perchè partecipare è l'unica cosa che puoi fare. Parlare di lutto e dolore è difficile, Yari Selvetella ci riesce coraggiosamente senza risultare melodrammatico e poco realistico Non ci sono nomi, non ci sono luoghi. È un romanzo stanza, stanze di ospedale che si susseguono... Stanza della malattia, stanza della morte ma anche un’ultima stanza, quella della speranza di una nuova vita. Sopravvivere è necessario, il mondo va avanti anche quando noi pensiamo che tutto sia finito ed il dolore è troppo grande da sopportare. Anche quando sentiamo il cuore stretto in una morsa, ci sentiamo impotenti e chiediamo a qualcuno più in alto " Perchè a me?". La vita continua ed in fondo al tunnel, nell'ultima stanza ecco che la vita ci mette di fronte all'emozione più bella, l'amore. Questo libro merita almeno la cinquina del premio STREGA e consiglio la lettura a tutti, a chi ha subito lutti ma anche a chi vuole conoscere la sofferenza dall'interno dell'animo umano.


Mario

Ci sono parole difficili da pronunciare, ad una persona, ad uno sconosciuto o semplicemente a noi stessi. Accede per un "ti amo", per un "augurio", ma anche per un addio. È quello che cerca di fare qui il protagonista, raccontato dalla voce densa e precipua di un barista, che descrive, ingloba a sé i sentimenti, le paure, le emozioni di un uomo incapace di lasciare andare il suo amore. Un romanzo bello, piacevole, interiore, intrecciato tra le mille stanze di qualcosa che tarda ad uscire. Ammettiamolo: è arduo veder sgretolarsi a poco a poco quell'amore forte, quel legame costruito giorno dopo giorno a causa di una malattia. Una storia commovente, introspettiva dell'autore, psicologica. Una narrativa ordinata a mo’ di poesia: l'ospedale come un lungo intestino, la verità come un grembiule trasparente ch'è necessario indossare, costretti dagli eventi e dell'esistenza. La vita a volte è magnifica, cordiale, amorevole, altre volte è una strega ostica, intrattabile, che porta via le cose più belle e preziose. Ho apprezzato molto questo romanzo per il linguaggio sottile e moderno, ho amato le figure evocative che mi hanno accompagnato accanto al percorso personale del protagonista, ho detestato l'ineluttabilità a volte della vita ma compreso a chiare lettere ch'è necessario reagire, sempre e comunque, per non rimaner imprigionati in quelle stesse stanze da cui è difficile trovare uno spiraglio.


Ilaria

Non si può sfuggire al dolore, nemmeno con l'incantesimo di una Strega, non si può non vivere il dolore... questo è chiaro ma al dolore si può reagire a volte serve l'aiuto di qualcuno, a volte è più facile riconoscersi in un estraneo che in chi ci conosce da una vita. Le stanze dell'addio e un romanzo che parla di dolore ma anche di forza e di coraggio è un romanzo che un po' ci fa star male perchè scatena una fortissima empatia, è un romanzo che crea domande; è un romanzo che lascia il segno e che va letto perchè sorprende anche per il suo stile forte e autentico.


Terza Agnoletti

La trama si riassume in poche righe, perché il romanzo non si regge sulla narrazione degli avvenimenti, ma sul carico di dolore che ne consegue. Un uomo reagisce alla perdita della donna amata tornando ogni giorno a cercarla nelle stanze dell'ospedale dove si è spenta. Lo richiama alla realtà un giovane che ha subito a sua volta una grave perdita. Il romanzo nasce dalla narrazione del dolore con i rimandi continui alla felicità del passato, che si esprime nei piccoli gesti quotidiani come negli avvenimenti più importanti, con una ricchezza di spunti e di linguaggio che affascina e travolge. La capacità affabulatoria dello scrittore ci strega con accostamenti di immagini e di vocaboli inaspettati e sorprendenti. Quando parla il giovane lo stile è più misurato. Sono due voci narranti con due toni diversi. Nel giovane non è presente quella vena di follia che agita il protagonista. In entrambi, però, il mare, la navigazione, l'incontro con una balena sono metafora della lotta per sopravvivere. Perciò troviamo alcune citazioni dal Moby Dick di Melville. In tutto il libro, poi, è presente il problema del tempo che viene congelato dal dolore o si dilata oltre misura nei ricordi.

La motivazione di Chiara Gamberale per la candidatura al Premio Strega

«Il dolore come uno spazio chiuso, dove non si può fare a meno di abitare; come un mare nero, che inghiotte il dorso della balena e in eterno ci costringe a inseguirla. Ma anche la potenza della vita e delle parole che – sole – possono tessere e allungare il filo per uscire dal labirinto. Yari Selvetella è un figlio del Novecento: sa che l'assurdo non può essere addomesticato. Eppure non si arrende, continua a cercare una forma, una possibilità di condivisione, e la trova dentro le stanze di un ospedale che a tutti noi sembra misteriosamente di avere conosciuto, nell'accezione reale e in quella poetica dei suoi spazi.»

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Le stanze dell’addio di Yari Selvetella è la cronaca del viaggio nel dolore del lutto e della morte (cominciamo a chiamare le cose con il loro nome) affrontato dallo scrittore dopo aver perso la sua compagna, mamma di tre bambini, a causa di una malattia tanto rapida quanto devastante.

I protagonisti principali sono l’Autore, l’Uomo con i Baffi e il Giovane ragazzo del Bar e nella loro alternanza, a essere sincera, spesso mi sono persa, ma ho sentito quello spaesamento come necessario per potermi immedesimare, seppur in minima parte, in quello dell’autore e poterlo seguire nel suo labirinto di dolore. Un po’ come quando a Berlino si entra nel Giardino dell’Esilio del Museo Ebraico di Daniel Libeskind, e attraverso l’inclinazione delle verticalità di alberi e cemento si prova un senso fisico di smarrimento e instabilità, comune a tutti gli esiliati. Leggendo si viene catapultati lì, in un esilio di dolore da cui però si può uscire affermando il proprio diritto alla vita, che è diritto ad amare.

E in fondo Yari è stato improvvisamente e imprevedibilmente esiliato in una terra fino ad allora sconosciuta, senza null’altro che il suo dolore, unica bussola nel disorientamento di una sofferenza enorme e potente, un insaziabile Minotauro che pretende ancora e ancora dolore.

Ma ciò che veramente ho amato è stata l’assenza di una domanda: mai, in tutto il libro, ci si chiede “Perché? Perché a me/noi?”. Questo è un atteggiamento raro quanto prezioso, spiegabile credo con la forte connessione alla vita dello scrittore e, mi è sembrato, della sua splendida compagna. Solo chi è davvero vivo sa nel profondo della coscienza (senza in realtà neanche averne consapevolezza) quanto la morte e la vita siano legate.

Mi ha ricordato quando, nella mia esperienza di counsellor, mi sono trovata ad accompagnare una mamma ad affrontare il dolore per la morte del suo bambino dodicenne (all’epoca coetaneo del mio). Era una donna che definiremmo semplice e , come spesso succede in queste persone, di una saggezza innata. Neanche lei nei nostri incontri chiese mai “Perché?”. C’era in lei un senso di accettazione della morte che ha solo chi ha profondamente accettato la vita, il che non esclude assolutamente il dolore della perdita e della mancanza, ma lo colloca in una dimensione umana e quindi universale, e in quanto tale ci indica la direzione per uscirne.

Credo che questo approccio alla morte, in una società che la esibisce ma nello stesso tempo la nega profondamente, rappresenti un piccolo punto di luce che indica una strada. Almeno per me.

Recensione di Monica Regnoli

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Yari Selvetella

1976, Roma

Yari Selvetella (1976) è un giornalista e scrittore romano. Collabora con vari programmi della Rai. È un esperto di storia della criminalità romana, un tema su cui lavora da molti anni attraverso articoli e libri, tra cui il bestseller Roma criminale (scritto con Cristiano Armati, Newton Compton 2005). Tra gli altri suoi libri ricordiamo Banditi, criminali e fuorilegge di Roma. Storie di assassini, rapinatori e ribelli nella città eterna (Newton Compton 2010), Roma. L'impero del crimine. I padroni e i misfatti della capitale (Newton Compton 2011), La maschera dei gladiatori (Carta Canta 2014), La banda Tevere (Mondadori 2015), Rino Gaetano. Il figlio unico della canzone italiana (Bizzarro Books 2017), Le stanze dell'addio...

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