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Argomento di questo volume è, come precisato dal sottotitolo, "la violenza omicida dei governi", in particolare nel XX secolo, presa in esame con l'ausilio del concetto di "democidio" - che l'autore usa per indicare "l'uccisione intenzionale, da parte del governo, di persone o popoli disarmati", proponendolo come equivalente del "concetto di omicidio (...) usato per definire l'uccisione individuale nella vita privata". Dopo aver preso in esame nel terzo capitolo il "democidio prima del ventesimo secolo", l'autore concentra la sua attenzione sul Novecento, esaminando le atrocità di quattordici regimi accomunati dall'aver causato non meno di un milione di vittime ed elencati in ordine decrescente di letalità - dall'Unione Sovietica (cui sono addebitati oltre sessanta milioni di morti) fino alla Jugoslavia, passando attraverso una serie di casi, alcuni ben noti (come quelli nazista e cambogiano), altri assai meno.
Dal punto di vista del lettore italiano, un sicuro motivo d'interesse del libro è rappresentato proprio dall'attenzione rivolta a vicende poco conosciute nel nostro paese - come i massacri causati dall'occupazione militare giapponese di varie regioni dell'Asia durante la seconda guerra mondiale o dalla secessione del Pakistan orientale (odierno Bangladesh) negli anni settanta. La ricostruzione di Rummel dimostra ulteriormente (se mai ve ne fosse ancora bisogno) l'impossibilità di scrivere una storia eurocentrica del XX secolo, perfino limitatamente al settore della violenza statale, in cui pure il vecchio continente ha avuto a lungo un indiscusso primato. Inoltre, dimostra la sostanziale uniformità delle dinamiche della violenza anche in contesti tra loro estremamente distanti, offrendo una smentita radicale alle tesi circa le "peculiarità" che renderebbero alcune culture (o nazionalità) più o meno propense a ricorrere alla violenza.
Una volta riconosciuti debitamente gli indiscutibili meriti del libro, occorre nondimeno evidenziare come esso sia tutt'altro che esente da difetti. Quello principale è forse il criterio "quantitativo" utilizzato per scegliere i casi presi in esame: perché esso regga, occorrerebbe che le statistiche di cui si fa uso siano inattaccabili. Ma così non è - né, per evidenti ragioni, potrebbe essere altrimenti, a prescindere dai dubbi sollevati dalle statistiche effettivamente usate. Sembra improbabile, infatti, che il comunismo sovietico abbia fatto più vittime di quello cinese, e in generale molti dei dati impiegati appaiono sovrastimati (anche se l'autore asserisce che si tratta di "medie" prudenziali), almeno al lettore familiare con qualcuno dei case studies presi in esame. È evidente che questo inficia irrimediabilmente la classificazione in ordine di "letalità decrescente", senza contare che alcune esclusioni (a prescindere da quelle dovute al fatto che l'edizione originale del libro è apparsa nel 1994, quindi troppo presto per includere gli eventi bosniaci e ruandesi) sono perlomeno discutibili (basti pensare alle stragi seguite alla partizione del subcontinente indiano nel 1947-48).
A un livello più generale, va detto che il concetto di "democidio" costituisce indubbiamente un serio tentativo di rispondere al problema di trovare una definizione unificante per tutti i tipi di violenza statale, comunque motivata (da ragioni politiche, razziali, sociali e così via) e che, sia pure con qualche necessario miglioramento, esso è potenzialmente di estrema utilità per storici e scienziati della politica. Molte conclusioni di Rummel appaiono, almeno a grandi linee, condivisibili, a partire da quella secondo cui " le democrazie non si fanno, o si fanno raramente, guerra fra loro ... meno democratici sono due stati, più facilmente combatteranno l'uno contro l'altro"; nondimeno, molti punti dell'interpretazione sono criticabili - a partire dal principio del potere, che riassume le conclusioni del libro nella frase "il potere uccide, e il potere assoluto uccide in modo assoluto".
Attribuendo al potere arbitrario la responsabilità dei democidi, Rummel finisce infatti con il sottovalutare altri importanti fattori causali. Ad esempio, anche se riconosce che "la maggior parte dei democidi avviene con il pretesto di una guerra, di una rivoluzione, di una guerriglia o all'indomani di queste", spesso trascura il ruolo delle circostanze, sopravvalutando invece - a tratti in maniera significativa - quello dell'ideologia. Il ricorso alla violenza finisce quindi con l'apparire come predeterminato e/o voluto sin dal principio - il che non è.
Il risulto finale di questa linea interpretativa è di accollare allo stato la responsabilità per eventi che, quasi invariabilmente, hanno invece luogo durante i processi di "costruzione" dello stesso - e il cui verificarsi o meno, interpretabile anche come una "degenerazione" del fenomeno stesso, dipende in larga misura da fattori contingenti, benché le dinamiche di svolgimento siano poi in larga misura uniformi (e richiedano quindi categorie esplicative unificanti, quale potrebbe appunto essere - con le opportune qualificazioni - il "democidio").
Antonio Ferrara
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