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Descrizione


La società statunitense si presenta come un universo complesso, del quale è difficile individuare caratteri di fondo e linee di tendenza. Questo volume analizza l'intreccio tra trasformazioni economiche, condizioni sociali e situazione politica negli Stati Uniti di questi anni, con un continuo riferimento alla dialettica tra politica interna e politica estera. La configurazione e l'evoluzione del capitalismo di quel paese sono viste sullo sfondo della situazione internazionale, nel tentativo di intravedere quali saranno gli sviluppi futuri tra gli Stati.
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Dettagli

1999
1 maggio 1999
288 p.
9788835946960

Voce della critica


recensioni di Testi, A. L'Indice del 2000, n. 03

Le buone ragioni di questo libro, e la sua utilità per noi lettori italiani, sono evidenti. Esso si propone di studiare criticamente gli Stati Uniti di oggi, nel momento in cui il paese non solo è diventato l'unica superpotenza globale, ma anche "si considera detentore dell'unica via di sviluppo possibile"; con questa realtà, o pretesa tale - afferma Malcolm Sylvers - "è d'obbligo misurarsi". Ma c'è di più, dice Sylvers. È infatti possibile che sia in atto una transizione di egemonia dagli Stati Uniti verso altri centri, e che quindi sia importante individuare le prospettive di una nuova conflittualità internazionale. È inoltre possibile, come diceva Marx, che "il paese più avanzato" anticipi le tendenze che arrivano altrove più tardi, e che quindi il presente della società statunitense ci aiuti a capire il futuro delle altre società capitalistiche, compresa la nostra. Su questa ultima osservazione, naturalmente, anche il liberale Tocqueville sarebbe stato d'accordo.
Proprio perché la faccenda è così cruciale, gli studi in proposito sono numerosissimi, negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Il contributo specifico di Sylvers consiste nel presentare al pubblico italiano una rassegna dei problemi da un punto di vista marxista, un punto di vista che ha molte virtù e qualche limite. Fra i limiti di questo approccio metterei una certa sottovalutazione del significato delle identità etnico-razziali e della identity politics, ovvero dell'impatto pubblico del movimento delle donne e, più in generale, delle differenze di genere. L'autore tende a ridurre tali questioni alla questione di classe, e quindi a impoverirne la complessità. Della divisione fra uomini e donne scrive, in maniera poco convincente, che "oggi fa meno discutere", e che a essa, nel suo lavoro, "viene dichiaratamente dato meno peso".
Fra le molte virtù della prospettiva adottata da Sylvers metterei invece il fatto che essa dà coerenza a un discorso analitico-interpretativo assai ricco e articolato, che riguarda i molteplici aspetti della vita economica, politica, costituzionale, sociale e culturale del paese. L'analisi è dettagliata e a tutto campo, la componente descrittiva è forte; il libro offre le informazioni necessarie anche per un prima ricognizione del funzionamento del sistema. Una seconda virtù è che questa analisi incorpora con naturalezza quanto di meglio ha prodotto la letteratura critica statunitense, quella di ispirazione marxista e radical, quella legata a un approccio liberal non celebrativo (da John Kenneth
Galbraith all'ex-ministro del
lavoro di Bill Clinton, Robert Reich), e infine quella conservatrice o più legata al big business e all'alta finanza (il "Wall Street Journal" è fra le fonti privilegiate di Sylvers, e fra le più efficaci).
L'asse portante del libro riguarda il dilemma adombrato nel titolo: insomma, dominio o declino per il colosso nordamericano? Sylvers rende conto del dibattito iniziato negli anni ottanta da coloro che annunciavano il declino (Paul Kennedy in Ascesa e declino delle grandi potenze, 1987), e degli interventi successivi di coloro che invece hanno ipotizzato il permanere dell'egemonia, anzi l'avvento di un "rinascimento americano", di un nuovo "secolo americano". Su questa controversia l'autore è puntualissimo nell'analisi, e giustamente molto cauto nelle conclusioni.
La scomparsa dell'Unione Sovietica non significa la fine dei problemi per gli Stati Uniti, che dopo il 1989 devono affrontare comunque un mondo piene di sfide: "un mondo fluido", scrive Sylvers, dove non vi è "né un Grande Ingegnere né un Supremo Imprenditore che organizzi il tutto". Dunque "il paese che si prefigge di diventare o rimanere il paese guida deve continuamente dimostrare la propria capacità di farlo". Gli Stati Uniti si trovano di fronte sia nuove nazioni che dalle periferie economico-politiche stanno avvicinandosi al centro, sia nuovi contrasti con gli altri centri avanzati (la Germania e l'Unione Europea, il Giappone e l'area che gli gravita intorno). In questo processo hanno subito un declino economico relativo, ma continuano a controllare, con grande dinamismo innovativo, strutture e risorse finanziarie, conoscitive e produttive che sono strategiche.
Soprattutto, continuano a dominare le strutture e le risorse militari. E queste sono decisive perché, dice Sylvers, malgrado i processi di regionalizzazione e globalizzazione dell'economia capitalistica, sono ancora gli Stati nazionali a essere protagonisti della scena internazionale e quindi della conflittualità reale e potenziale. Sono gli Stati a possedere eserciti, e l'egemonia si fonda anche sul primato politico-militare. Tenendo conto di tutti questi fattori, l'autore ritiene che lo scenario più plausibile per il futuro prevedibile sia una prosecuzione dell'egemonia statunitense, con una integrazione subalterna degli altri centri per quanto si riferisce al potere decisionale, e con un aumento della conflittualità. Si tratta di una situazione in equilibrio precario, ma che può durare a lungo. Sylvers cita una celebre battuta dello storico settecentesco Edward Gibbon a proposito della decadenza dell'impero romano: "tale situazione intollerabile durò più o meno 300 anni".
Fra i fattori che possono giocare un ruolo nel futuro degli Stati Uniti come potenza egemonica vi è quello della democrazia interna del paese, della sua stabilità (che sembra fuori discussione) e della sua buona o cattiva salute (che è invece tema molto dibattuto). Stabilità e buona
salute non sono la stessa cosa. Sylvers sottolinea come in Italia si tenda a ignorare i limiti intrinseci di quella democrazia, che costituiscono di fatto le condizioni della sua stabilità ma che dovrebbero essere visti come un problema almeno da chi si dichiara di sinistra; eppure nel nostro paese personalità "una volta considerate di sinistra" mostrano accesi entusiasmi per la politica statunitense, che spesso descrivono in termini molto approssimativi. "Può sorprendere, in effetti", commenta Sylvers con generosità (o sarcasmo), "che del paese guida si sappia così poco".
Il sistema politico statunitense si fonda su una vasta area di non-partecipazione, e sull'accentuarsi dell'assenteismo elettorale (che riguarda il 50% dell'elettorato potenziale). E a restare passivi sono i più poveri, coloro che più avrebbero bisogno della politica. Essi ritengono di non aver tempo per protestare, perché troppo impegnati a sbarcare il lunario. Non hanno fiducia nella loro capacità di influenzare il governo, e quindi restano docili. Pensano, come ha scritto Galbraith, di vivere in "una democrazia che appartiene ai benestanti e agli appagati" dove "la ricchezza monopolizza il diritto di voto". Il risultato, e in parte la causa, di tutto ciò sono una politica di partito dominata dalle lobby e dal denaro, politiche sociali sempre più asfittiche e punitive, la concentrazione di potere in organi di governo sottratti al controllo popolare (la Corte suprema, la Banca centrale federale), la riduzione del discorso pubblico a chiacchiericcio, mentre i gruppi che sanno, discutono sul serio e decidono davvero operano in luoghi ristretti e meno chiassosi.
Voci dissonanti esistono, ma sono flebili, divise, e stentano ad avere rappresentanza. Sul fatto che possano crescere e organizzarsi nell'immediato futuro, e diventare fattori influenti nella politica nazionale, Sylvers è piuttosto scettico. Nelle ultime pagine del libro egli tenta di prefigurare gli sviluppi del conflitto sociale nel paese, ovvero la possibilità che emerga un "eventuale movimento popolare anticapitalistico" con un programma di cambiamento. Per alcuni versi questo tentativo è discutibile, intessuto com'è di costruzioni ipotetiche e di verbi al condizionale, nonché di indicazioni prescrittive su ciò che questo movimento dovrebbe fare e non fa (per esempio: mettere la sordina al multiculturalismo e rompere con le politiche dei favoritismi razziali ed etnici, che dividono i ceti popolari invece di unificarli). Per altri versi, laddove esamina i movimenti di opposizione realmente esistenti, è invece illuminante. Aiuta (per esempio) a comprendere alcuni aspetti della cosiddetta "battaglia di Seattle" intorno al vertice della World Trade Organization del dicembre scorso.

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