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Dove la religio tiene presente e onora la morte (i morti), nasce anche una religio della scrittura, come in una poesia (Stato apparente, p. 73) che forse allude all’epigramma di Dickinson sulla parola che “inizia a vivere” se è pronunciata (forse lo stesso discorso si irradia nella sezione V di Spostamento: “diversamente linguaggio ai bordi della parola / appena pronunciata sulla tela marginale contorno”). Allo stesso modo, la phrén umana ha bisogno di una forma di parole. Se la relazione tra due individui è una persona e un dáimon – tale deve essere la relazione con Dickinson –, la ricerca di un Assoluto scritto può essere il codice con cui il vivo e il morto (scrittori) si intendono ed esistono. La stessa “volontà di dire” si impone come una nuova persona, uscendo dallo psicologismo effusivo del suo autore: “[…] è sempre più netta la sensazione che nella scrittura, solo nella scrittura, risieda la vera prova della mia esistenza. Non nella mia stessa vita. Il ricordo di avere scritto, la presenza inconfutabile di una materia scritta che occupa uno spazio, come il mio corpo ne occupa uno: solo queste sono le prove che esisto, che sono esistita” (Stato apparente, p. 135). Infatti, prima, “figurativa è la vita mortale di Emily, perché la prolusione a quell’altra, immortale, cui accederà grazie all’opera. L’esistenza di Emily non esaurisce il suo significato sul piano della pura e semplice serie reale di eventi e di fatti che la fecero, ma si riversa e continua nell’opera, e in questo l’arte e la vita certamente in Emily si congiungono” . In Dickinson questo riversamento è opera di anamorfosi, secondo Fusini. In Frene tutto questo si specifica ancora più intellettualmente: la metafora – che è, etimologicamente, uno spostamento – non è più la semplice iunctura di lemmi, ma “la mia esistenza”. La metafora si personifica in una scrittura “che occupa uno spazio”, corporalmente. Se la morte è un dio, la scrittura è una persona non mortale: come è persona il rapporto tra individui e scritture.
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